giovedì 5 febbraio 2015

L'arte di una vita inutile (Alfio Caruso)

Canta. Che magari poi ti passa. Suona, suona ancora, Willy, che la gente ha voglia di divertirsi di nuovo, dopo che son passati i duri tempi della guerra. Ora eccoti di nuovo a Catania, dall’America che ti salvò la pelle. Dato che prima della Seconda guerra mondiale fosti coinvolto, per caso, per destino o per magia in un “ammazzamento” e t’aspettava la galera, senza ombra di dubbio. Ma si sa, se hai qualche amico, di quegli “amici” che girano da quelle parti, nulla è impossibile. Hai un asso nella manica, Willy, sei nelle grazie di Lucky Luciano, il boss dei due mondi, cacciato dagli Usa come indesiderato ma capace ancora di tessere le fila ed intavolare lucrosi affari con la politica. 



Il boss ti ha come benedetto, t’ha regalato molti “piccioli”, i soldi per aprirsi un locale stile Nuova York o lo Angeles ma a Taormina, dove le prospettiva di crescita, rinascita e sviluppo non solo si intravedono, ma si respirano nell’aria. E’ fatta. Ma i tarli del rimorso mangiano ogni centimetro di serenità a Willy. Anche perché dopo anni negli Usa pazzi e stralunati, dove le celebrità ti chiamavano per nome, i grandi boss mafiosi ti lodavano in maniera sperticata, ora è dura ricominciare in quest’isola generosa ma povera, indietro in tutto, talvolta veramente arcaica, dove la famiglia per prima pretende soldi, prima che affetto. Ma non ti frega, Willy. Torna sempre e forte, come dici, la voglia di casa, specie se succede come a te, che a New York, all’apice del successo, ecco il baratro perché tua moglie ti molla, ché non ne può più del tuo essere marito solo per l’anagrafe e gallo cedrone tutte le sere, nei locali, dove abbondano disponibili galline. E rieccola ora la Sicilia, la famiglia, una Taormina che lentamente si risveglia dal drammatico torpore dato dalla guerra, che però è finita da poco, la fame s’aggira spettrale e silenziosa, l’isola è ancora percossa da fremiti di indipendentismo, la sacra cupola, divisa tra vecchi uomini d’onore e nuovi e rampanti picciotti, è in fibrillazione. Ma Melodia, uomo dalle mille debolezze, le sicure capacità musicali, mira solo a sistemarsi, pur sicuro delle proprie torrenziali incertezze. Melodia ammira e teme Luciano. E Willy, il pavido, si mette all’opera, talvolta rimpiangendo le ben due mogli  rimasta una negli Usa e l’altra in un lager nazista per sempre, i suoi due figli cui cerca ogni volta di essere padre e riuscendo a malapena a fare lo zio. Luciano lo controlla, usa, abusa, lui lo sa a prescindere, ma poi lo ammansisce, obbedendo senza scrupolo. Debole sapendo di esserlo, bugiardo non avendo mai forza per smettere, dai rapporti precoci con le donne che poi diventano, a suo dire, il un tormento interiore ed una sua sconfitta continua. Tu Willy Melodia, tu che non lesini ripetere che ti nascondi dietro ad un pianoforte per riparati dalla vita, che tieni più al tuo macchinone americano che a tua madre, sei tornato a casa, come uno che ce l’ha fatta, che ha realizzato il suo sogno di sfondare come pianista nei locali più “in”. Ed hai stretto un patto con Luciano che non potrai mai sciogliere, pena l’andare al creatore. Sarai sottoposto alle sue bizze, ma anche alla sua protezione. In bocca al lupo…
Una Sicilia certo annunciata, quella oramai tramandata da libri e televisione e che anche se non corrisponde al vero, è ormai un archetipo. E di stereotipi e archetipi si serve il narartore, senza nulla togliere o nulla aggiungere a quel che di male si è fatto sapere, che fosse bene o fosse male, di una terra invece ricca e viva non solo medioevo e mafia, ma si sa, le generalizzazioni servono a cambiare tutto affinché nulla cambi.
Una storia che si lascia sicuramente leggere, che non è efferata neanche nei momenti topici e violenti, non indulge in moralismi, retorica, ipocriti giudizi benpensanti ma lascia parlare i fatti. L’uomo senza qualità, peggio e più intestardito nelle sue deficenze dell'omologo eprsonaggio di Musil, personaggio front man del racconto, sicuramente irrita per il suo egoismo e qualunquismo di fondo, con scenate miserabili di autocondanna quando non smette di fare l’ipocrita verso tutti, anche se stesso. E talmente perdente sin dall'inizio che passa addirittura la voglia di pensare a qualche vittoria, di questo burrattino senza fili che cerca di scamparla a qualunque costo, di vivere alla meno peggio, negli affari come nelle donne che poi lo abbandonano, chissa mai perché, si chiede lui, ma noi lo abbiamo capito, meglio essere sole che accompagnate da uno che vive all'ombra del proprio pianoforte. Se volete un paragone narrativo, forse potrei citare American Tabloid di James Ellroy quale diretto ascendente letterario di questo romanzo di Alfio Caruso, catanese del ’50, giornalista e romanziere prolifico. Certo, rispetto alla statunitense manca l’ampio respiro di fondo, quel ritmo aggressivo e serrato, quella rapidità stilistica che difficilmente possono far parte del bagaglio stilistico di un italiano. Una storia che può anche intrigare, non tanto per i colpi di scena, diluiti e  dilatati, ma soprattutto per gli evidenti riferimenti alla cronaca vera, alle numerose connivenze fra Stato, mafiosi siciliani e cugini americani, ai vari accordi mancati o invece portati lucidamente a termine con tanto di sanguinolento contorno di morti comminate. Un utile strumento insomma per approcciarsi a fatti che purtroppo hanno drammaticamente segnato non solo la storia siciliana, ma quella dell’Italia intera

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