giovedì 6 agosto 2015

Tutti giù per terra (Giuseppe Culicchia)


Walter cammina, corre, si perde, non si ritrova in questo mondo di moduli prestampati e dal sapore vagamente coercitivo oltre che di fattura prettamente burocratica, già scritti, come percorsi predefiniti. E allora lui si perde ma  qualcosa trova lui, qualcosa in cui NON credere, qualcosa in cui NON trovarsi. Prosegue, non si ferma, non è nato per stare fermo, anche se è chiaro, lui non riesce a trovare una direzione. Ed allora incroci, tangenziali, scorciatoie ma anche (e purtroppo) sensi unici, nel cammin di nostra vita. La strada è lunga, ma non c'è bussola che venga donata o magari vinta a qualche lotteria nazionale per la propria autodeterminazione al mondo, sicuro.


                    "Non mi interessava fare carriera, stritolato sotto vuoto spinto da un meccanismo costruito su misura fuori misura per me. Non era la fatica a spaventarmi. Avevo paura di scaraventarmi da solo in una prigione per poi gettarne le chiavi con le mie stesse mani, come accadeva nei sogni” Walter parla, urla e poi, come a tanti altri, gli finisce la voce. Walter è nella sua città, quasi assorbito, invischiato da questa lucida impassibilità di Torino, vorrebbe ma non può, potrebbe ma non vuole. Dimenticato ed inesistente, anche se si sente vivo e vuole vivere, magari alla sua maniera e perseguendo (e perseguitando talvolta) qualche suo ideale. Walter pensa, si specchia ed è specchiato, vede gente, fa cose, ma rimane sempre un certo sottofondo di solitudine suonato come sempre dall'apparato della società, dai costumi imperanti, dall'ordine precostituito, da ciò che esiste e che bisogna se non accettare, subire, come, ad esempio, le canzoni dei Pooh, mentre si amano i Ramones ed i Sex Pistols, non nei connotati politici ma negli aspetti esistenziali che vibrano nella loro musica. Si avverte, è vero, un clima epocale, tra il crollo del muro di Berlino e l’imperversare di Tangentopoli, ci si aspetta sempre qualcosa e poi invece niente. Non succede nulla. Anzi. Qualcosa si ripete, come se ci fosse un eterna storia individuale già scritta. Walter è un neodiplomato, vive agli inizi degli anni novanta, come tanti di noi, dove tutto sembra poter riprendere, dove tante cose sembrano dover morire, dove ci si illude che. Una generazione segnata, Walter ne è parte integrante. Ma poi insomma eccoci qui. E in Walter ci rispecchiamo e diciamo eccolo qua, cosa mancava. E non vogliamo nemmeno più arrabbiarci, è andata così, ormai e nessuno può farci niente. Neanche se magari. Nemmeno se forse.

"Tutti giù per terra" (1994) è un romanzo che chiude gli anni Ottanta. Una storia scritta da un mio quasi coetaneo, anzi magari un fratello maggiore, su un decennio che ha avuto comunque il ruolo e la funzione di spartiacque e che può, in un ipotetico percorso assolutamente personale di letture, essere decrittato nei suoi inizi da autori distanti come stile e come visione del mondo quali De Carlo con “Treno di panna” e Tondelli con “Altri libertini”, incarnato nel suo apogeo da Veronesi con “Gli sfiorati” e il pretenzioso "Rimini" ancora di Tondelli e concluso da questo testo, eventualmente con la collaborazione di Silvia Ballestra e la sua dissacrante saga degli Antò .
E qui, in ogni caso, ci si può impersonare con Walter, spaesato ma cinico, timido stupefatto ma anche testardo e acido ma non farraginoso contestatore senza per questo irrigidirsi in azioni quanto virulente tanto velleitarie, ma bensì facendosi icona di un rifiuto fatto di piccole ribellioni quotidiane più che di epiche e impossibili sovvertimenti di sapore eroico ma di scarsa incisività. Beh, certo andava proprio così, perlomeno dalle mie parti, nella mia vita ed in quelle che avrei potuto vivere allora, quando stavo per farmi ingoiare dalle fauci maleodoranti dell'università per farmi poi digerire dagli attuali intestini burocratici e putrescenti dove mi trovo.

“.. i ragazzi e la ragazze della mia generazione scopavano giovanissimi. La maggioranza(…) ci dava dentro col sesso orale fin dai sedici anni. A diciasette avevano il loro primo rapporto completo. Molti a diciotto erano già nauseati dalla carne e passavano alla coca. Io a ventuno ero ancora vergine”
Sì, diciamocelo, come Walter, anche noi a nostro modo non riuscivamo a rivendicare il diritto ad una verginità. In fondo eravamo tutti vergini, anche quelli che millantavano impurità boccaccesche che avrebbero messo a disagio Rocco Siffredi. In fondo, ed anche in superficie, erano anni fatti così. Un disperato bisogno di idee, una confusa sensazione di pensarle, un sottile e beffardo sentimento che prima era già successo molto, troppo e dunque tutto e niente stava succedendo e stava per succedere. Sembrava tutto ad un passo, ogni cosa appariva a portata di mano. Soprattutto a quelli come noi. Quelli che.
Quelli che facevano filosofia o lettere in facoltà anonime e spersonalizzate, piene di gente che passeggia, professori che si assentano, assistenti in nero che malpagati o non pagati sgobbano, nessuna possibilità di dialogo, libri di testo costosissimi anche in fotocopia sempre rigorosamente a firma del titolare di cattedra. Dove erano, ti chiedevi, chissà dove, la cultura e la memoria che tu andavi a ricercare, la coscienza e la conoscenza che tu desideravi, dopo anni liceali passati a ribellarsi alla ribellione, ad inchinarsi alla spersonalizzazione dell'educazione e a sfuggire, se potevi, all'omologazione fatta di contestazione preconfezionata e alternatività omogeneizzata. Insomma tanti che non stavano, a destra o sinistra o al centro, senza bussola, ma con i piedi per terra.
Ebbene. Sì eravamo così. Obiettori di coscienza perchè il militare era una farsa, abbandonati totalmente dalle presunte ideologie di partito dei padri, che però nel frattempo tradivano bandiere, famiglie ed ideali in nome della villeggiatura in montagna e dell’aumento del debito pubblico, perché in fondo in quegli anni là, ormai trascorsi, la bambagia aveva soffocato qualsiasi anelito a, ed il benessere sembrava non solo una necessità, ma anche un diritto comunitario, mentre si sbriciolava un sistema per generarne un altro più o meno catastroficamente uguale o addirittura con risvolti peggiori.

I debiti letterari, poi, mi sembrano evidenti. Come lo stesso autore non nasconde in una lontana intervista ancora visibile ondine, le sue icone letterarie sono  "Fiesta" di Hemingway "Il grande Gatsby" di Fitzgerald o "Estinzione" di Bernhard o "Berlin Alexanderplatz" di Doblin o "Fame" di Hamsun o "America" di Kafka .
Mi sembra, a dovere di onestà intellettuale, segnalare anche l’ormai inevitabile Salinger, che con il suo Holden ha segnato, ha torto o ragione, un modo di fare ed essere, narrativamente parlando, facendosi padre di qualcosa di cui probabilmente al massimo lui stesso è figlio, ma diventando fratello di tante narratività, vuoi per valore, vuoi per imperio editoriale. In ogni caso Hemingway e Bukowski sono esplicitamente citati come letture di Walter.
Per inciso l’autore in questione fu scoperto e lanciato nel 1990 da chi, allora, di letteratura giovane probabilmente se ne intendeva, ovvero il compianto Pier Vittorio Tondelli (Le sue prime prove letterarie sono stati alcuni racconti pubblicati nell'ambito del progetto di scrittura giovanile "Under 25", curato da Pier Vittorio Tondelli per Transeuropa Edizioni nel 1990), scomparso, come noto, prematuramente.
Di questa fiducia reciproca ne esiste una riservata e, alla luce dei fatti, pudica dedica, anche nel romanzo in questione, quando Walter incontro lo scrittore (“Mi accorsi che con gli occhiali assomigliava un sacco  a mio nonno. Aveva l’aria di essere una persona onesta e pulita. Non sembrava uno scrittore di successo”). Un romanzo dunque frizzante, dallo stile personale e accattivante e dai contenuti generazionali, solo in parte sminuito dallo scrittore con il seguito, intitolato “Paso Doble”, debole nelle convinzioni ed esile nei contenuti.
Di questo romanzo ci fu poi una convincente e se volete  brillante versione filmica (1997, con Valerio Mastandrea), che mere voci di corridoio segnalano Culicchia abbia apprezzato. Una pellicola di quelle che convince, dal ritmo e dal taglio certo non tradizionali in senso indigeno ma evidentemente ispirata a mio parere a modelli d’oltrefrontiera, ben girato, discretamente interpretato,cinema fatto più di fotografia e montaggio che di dialoghi e scenografia, insomma meritevole prova registica dello sceneggiatore e documentarista Davide Ferrario, già noto all'ambiente, con le sue qualità di sapore non avanguardistico ma sicuramente fuori dal solito consunto filone registico italiano, un  filmare spiccatamente moderno, in bilico sempre fra pensiero ed azione (da qui il ricorso alla voce narrante fuori campo per dettagliare lo scorrere delle immagini), fra lo stupore ed il rancore, fra la fiaba e la realtà). Da segnalare poi l'ottima, poiché corroborante e corrosiva,  colonna sonora quasi tutta a cura dei CSI, gruppo certo sui generis nel panorama italiano ma qui perfettamente a suo agio nel musicheggiare i rapidi incisivi e taglienti segmenti filmici che compongono la pellicola in questione, adeguati al ritmo ed ai contenuti, tutti innervati su un senso di smarrimento e disorientamento apolitico coevo forte e chiaro, ora, nei nostri cuori di allora. 



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