domenica 6 maggio 2018

Purity (Jonathan Franzen)


No, non siamo puri. Ma siamo soli, ecco. Abbiamo bisogno di purità? Nel senso, vogliamo essere candidi, senza macchia e senza paura, come i cavalieri o i principi (principesse) azzurri? O forse alla fine questo torbido che ci annacqua e sporca bisogna accettarlo e farsene una ragione. Nel senso farci vedere senza schermi, essere liberi ma diversi quanto uguali ed accettare le conseguenze. Certo che io non lo so, ci mancherebbe. Trovo il mondo un po’ opaco, perché anche le più grandi sincerità nascondono un velo di tristezza ed un certo scudo invisibile che serve a proteggersi, come i supereroi della Marvel. La purezza questa sconosciuta. Trattasi di categoria spirituale o di atteggiamento verso la vita o verso gli altri? Il nodo scorsoio in cui è stretto il nocciolo del significato di questo romano di Franzen è una domanda alla fine senza una risposta assolutoria ed apodittica. Impossibile peraltro, anche per uno scrittore congetturale. Se non siamo proprio angeli, non è colpa della sfiga. Perché bene e male, qualunque accezione vogliamo dargli, abitano dentro di noi. Anche voi eh, mica siete esenti. 



Continua in Franzen comunque l’assoluzione/dissoluzione delle relazioni famigliari e non solo, vera ossatura dei romanzi dell’autore. Stavolta però è più ampio il respiro, più onnicomprensiva la storia ed i suoi risvolti, che partono dal secondo dopoguerra ed arrivano ad oggi, alla globalizzazione ed ai misteri ed i fascini dell’era digitale o meglio internettiana. Però forse stavolta succhiare linfa dalla cronaca contemporanea l’ha reso sicuramente più intelligibile ma meno romanziere. 
Una sorta di seduta psicanalitica dell’intero mondo occidentale, come ho letto da qualche parte e che condivido, con tanto di plusvalenze politiche e ambientaliste, dove sono vivisezionati tutti i personaggi. Un romanzo claustrofobico eppure di ampio respiro, a differenza di Roth, il padre di Franzen, per esempio, che probabilmente non ci riuscirà mai ad essere più libero (puro?). Questa la cifra stilistica di una autore che deve molto al conterraneo Philipp ma che comunque ha un suo marchio di fabbrica. Che stavolta ambisce ad un ritratto globale che esuli dalla nazione di nascita e che non nasconde fra le numerose pieghe una quasi isterica preoccupazione per il nucleare e i suoi risvolti politico economici, la accurata riutilizzazione dei rifiuti, le nuove frontiere con i pericoli portati dal web, le utopie e le loro conseguenze, le sopraffazioni e le loro eccedenze. Rivolgimenti, stravolgimenti, strangolamenti (morali ed affettivi, non fisici). 

Sembrerebbe tanto, forse troppo, ma Franzen, al di là delle parti filosofico-saggistiche che spesso bloccano ed inaridiscono la narrazione (non siamo tutti Orwell o Kundera) riesce ad amalgamare con il suo talento per l’architettura narrativa, dove ogni parte, che sia imponente o minimale, funziona e regola il tutto. 

Disarmo nucleare. Pip, le sue velleità, le sue debolezze, la madre che la ossessiona, una ragazza dei nostri tempi che si chiama purezza. Nomen omen? Non direi. 

Poi l’egocentrico Andreas, il meno riuscito dei personaggi principali, troppo cronaca attuale e poco realistico in funzione della fiction romanzesca. E gli altri. Annabel, Tom, Leila, vivi vivissimi, che siano attori principali o mere comparse. 

Le triangolazioni amorose, così di moda ormai, sempre isoscele e mai equilatere, dove è impossibile mantenersi equidistanti e formare angoli retti e puri. L’insostenibile leggerezza delle relazioni, la claustrofobia dei rapporti con i genitori, dove le intenzioni, buone o folli che siano, palesano una marmorea inadeguatezza. 
Un mondo brutto là fuori. Franzen ce ne ha descritto (bene credo) almeno una parte.

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