martedì 12 febbraio 2019

Luce d'estate ed è subito notte ( Jon Kalman Stefansson)


Il tempo passa, ci passa attraverso e per questo invecchiamo. Tra cent’anni saremo sotto terra, nient’altro che ossa e forse una vite di titanio che il dentista ci ha fissato in un dente dell’arcata superiore, perché l’otturazione tenesse”.
Una terra isolata, a suo modo sospesa tra la magia e l’oblio, la capitale Reykjavik è lontana e Sydney molto, ma molto di più, racconta l’autore. Lirismi mai ammorbanti e ritratti carveriani ma in salsa nordeuropea in un villaggio che non arriva a quattrocento anime. Ma i cuori pulsano, le anime vibrano, la gente parla.

Siamo in un posto dove fa notizia persino se arriva una cartolina illustrata dal continente, dove non dovrebbe succedere mai niente mentre invece accadono cose che vengono poi chiacchierate e ricordate per sempre dalla comunità, come fossero patrimonio di tutti.
Nessuno infatti dimentica la storia dell’Astronomo, uno che possedeva tutto e di più in quelle remote lande islandesi, compresa la moglie più concupita della zona ed è stato capace di mollare volontariamente tutto per farsi recapitare misteriosi libri in latino per poi cominciare a filosofeggiare sui misteri dell’universo, come se fosse facile di già affrontare la vita quotidiana.
E si parlotta ancora senza sosta, nelle sere gelate del lunghissimo inverno dell’amore boccaccesco e sconfinato che nacque fra Kjartan e la sua vicina di fattoria. Come nessuno scorda la terribile vendetta della moglie di lui che appare leggendaria e di monito a qualunque marito abbia tentazioni extra matrimoniali.
Nel mentre ci si interroga ammirati su quale rotella sia andata fuori posto o sia stata strangolata dal freddo al giovane Jonas, che dalla vita non chiede altro che poter dipingere stormi di uccelli su sfondi magici, su qualunque parete o spazio gli si metta a disposizione. E si ride, nelle serate a base di vodka e confidenze sulle paure dei due magazzinieri che sentono fantasmi lì nei locali di deposito dello spaccio e si discute sulla procace bellezza della intraprendente e scoppiettante Elisabeth, che ovviamente è stata catapultata in quel posto ed intende stravolgerlo.

E che spazio c’è tra la vita e la morte, se c’è ne è uno, e allora come si chiama? Lo si misura in chilometri o in pensieri, e c’è chi riesce a transitare dall’una all’altra-- avanti o poi indietro?”
E così ci immergiamo in una Storia delle storie, l’ineffabile quotidiano della vita di ciascuno di noi. Uno stile nuovo ed efficace quello di Stefansson, che denota doti liriche non indifferenti e mostra che il suo passato di poeta non è marcito, anzi vive e solidifica la sua prosa a volte quasi carveriana nel suo minimalismo mai retorico e così vivo. Il tutto con improvvisi strali (anzi veri e propri colpi d’ascia) contro la globalizzazione e i partiti di governo islandesi e il resto dell’umanità che vive sì in grandi città ma è sempre più piccola e sola.
Una voce nuova, dove il fuoco arde sotto il ghiaccio, una natura che solo l’asfittico può definire ostile e tanta, vera e a volte eccessiva umanità che come sappiamo tanto perfetta non lo è. Ma proprio no.

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