lunedì 29 gennaio 2018

Ruggine americana (Philipp Meyer)

Isaac English. Billy Poe. Due ragazzi ancora. Eppure quanta vita alle spalle. Il primo ha perso la madre ed ha dovuto badare al bisbetico padre per anni, mentre la sorella sfruttava l’intelligenza di cui sono dotati entrambi per andarsene, laurearsi e sposarsi lontano, più lontano possibile. L’altro ha visto l’irascibile padre sbevazzone andarsene via, la madre appassire come le margherite in autunno e l’unica speranza che gli rimane, se tiene duro e non da di matto come gli capita, può sfuggire al destino grazie al football americano ma fa del tutto per non cogliere l’attimo, come se avesse messo radici nella casa materna, traballante e sporca fino all’estremo di rabbia e solitudine. Ce la faranno a sfuggire al destino?


Due di due. Ma non alla De Carlo. Due vite, un'unica storia, la provincia americana arida e desolata e per di più messa in croce dalla crisi economica che ha spopolato l’intera vallata dove vivono i protagonisti. Qui non troviamo semplice ruggine, ma implosione. Si sta disintegrando tutto.
Isaac nonostante le notevoli capacità ruba i soldi per andarsene, a Pittsburgh magari, perché lì dove vive non respira più. Non vive. E suo padre Henry, dispotico e tirchio, certo non lo aiuta ed allora meglio prendergli i risparmi che sono in casa ed andarsene.  Come sua sorella Lee, egoista e sicura di sé, ovviamente solo in superfice, che si é completamente disinteressata del genitore disabile ed ha badato esclusivamente a costruirsi una vita sua. Billy, forte fisicamente ma dai sentimenti confusi e con le ragioni che ancora faticano ad avere un filo logico, difende da una parte l’amico, dall’altra alla fine lo subisce. E proprio per preservarlo dal pericolo si caccerà nei guai assieme a lui, finendo per coinvolgere il poliziotto Bud Harris, innamorato della madre Grace e che di fatto fa da padre pur vivendosene da solo nella sua villetta sperduta in collina. Solo e malinconico come solo certi personaggi dei romanzi statunitensi sanno essere.
Questi gli attori principali. Tratteggiati con maestria, fotografati con la giusta prospettiva
Uno scenario dove pare si prepari l’apocalisse. E dove pare che la felicità, anche se arriva, nessuno la riconosce e la lascia scappare via, rimanendo preda delle proprie inconsolabili paure, degli innati rimorsi ed insomma delle proprie debolezze. 
Molto più Roth che McCarthy, anche se meno stringente e claustrofobico dello scrittore statunitense attualmente più famoso, Meyer qui mi ha leggermente deluso. Pur avendo le attenuanti che si riservano agli esordienti. Avevo letto per primo il suo secondo romanzo, Il figlio, rimanendone ammaliato. Maestoso, struggente, violento, tenero, insomma quasi perfetto. Qui, il suo esordio narrativo, invece le sbavature sono tante, forse troppo a mio parere, anche se il talento in alcune pagine emerge limpido e cristallino. Tuttavia nel complesso un’opera che non mi ha convinto per intero, compreso l’ameno e frettoloso finale, troppo zuccheroso e banale per una storia con dei risvolti drammatici e dalle vicende intense.
Qui in Italia, per lo scenario industriale e i morsi che solo una crisi economica sa dare, è stato paragonato ad Acciaio, della Avallone. Per quanto mi riguarda un accostamento infelice e privo di qualsiasi fondamento, perché il romanzo italiano è notevolmente infarcito di stereotipi e ammiccamenti banali, con riferimenti alla attualità assolutamente decontestualizzati e utili solo all’audience (o meglio alle vendite). Lascio a voi immaginare chi preferisca, nonostante tutto.

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