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C’è Eli, il colonnello, che
dopo aver visto distruggere tutta la famiglia tranne il padre, causa un ranch
alla frontiera, rapito dagli indiani, parte da schiavo e diventa quasi capo della
tribù Comanche che lo ha rubato e poi diventa un possidente texano., che getterà le fondamenta per continuare la storia gloriosa della sua casata fin quasi all'epoca quasi an oi coeva, tra petrolio, speculazione finanziaria e globalizzazione imminente C’è Ellen, che a cinque anni (o erano dieci?)
già lanciava il lazo ad acchiappare vitelli ed a dieci (o erano cinque?) marchiava
e cavalcava cavalli selvaggi. C’è Peter, un apparente tizio grigio ma dalle
forti svolte esistenziali, quelle che non recano ritorno, tipo uno Stoner ante
litteram. Anni che cavalcano tra il 1850 e prima ed il 1950 e poi. Non c’è niente da difendere, niente da
attaccare. Una storia. Narrata da un narratore coi fiocchi. Mai una parola in
più, mai una parola di meno .Grandiosa e mai morbosa la narrazione, davvero, rimasto basito. E una
forza nel ribadire quanto nel bene e nel male sia importante una famiglia, che
non ho trovato nei pluri-incensati suoi contemporanei, che ne hanno decantato
la mera distruzione.
"Il figlio" è la determinazione che, come credo io, l’istinto
e non la ragione, soppravvale. E siamo effetti, non cause, per quanto cerchiamo
di dirci che causiamo questo o l’altro. Siamo animali, sviluppati e ben messi,
ma tutt’altro che ragionieri, esistenzialmente parlando. Ed allora ci si
appella al padre o al nipote per assolversi o condannarsi, nel senso che la
vecchia e consunta cellula sociale apposta dalla parentela è un’ancora, una
catena salvifica, non un sasso per inabissarsi. Oddio poi ognuno, come capita, muore, ha sensi di colpa, non resiste. Ma l’avere un totem con cui
confrontarsi, invece di eliminarlo, rende unici e pratici i personaggi
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