11 giugno 2014

Norwegian wood (Haruki Murakami)

Toru, Naoko, Nagasawa, Midori, Reiko. Cinque protagonisti di cui quattro ragazzi studenti ed una quasi quarantenne dal corpo scattante, ma dall'animo incupito da un passato difficile e strozzato da problemi psichiatrici. Estrazione sociale diversa, destini differenti. Siamo nel Giappone, raccontato da un nipponico di Tokyo, nato nel 1949, che ha viaggiato molto (romanzo scritto fra l'Italia e la Grecia, per esempio, nel 1986) e che già con il suo esordio narrativo nel 1979, ha destabilizzato la tradizione narrativa nipponica.
Ambientazione nel sessantotto e dintorni. Il pop rompe gli argini e diventa fenomeno di massa interplanetario con i Beatles, di cui Norwegian wood è un più o meno famoso pezzo. Sugli schermi esce Il laureato con Dustin Hoffmann, i giovani si immedesimano con la storia ed i protagonisti della storia, e al film il libro deve più di qualche atteggiamento e spunto, non solo perché più volte citato, ma perché lì come qui si narra dell'impatto dello studente con il mondo degli affetti adulti o adulterati, dove il problema è non solo dare spazio e sfogo agli ormoni in rivolta ma capire e conoscere la profondità dell'altro, avere quella che si chiama un relazione. 
Dunque un gruppo pop ed un film sono i due corposi punti focali assieme ad una marea di citazioni letterarie, per capire e comprendere l'assoluta letterarietà e contemporaneità del testo.
Sullo sfondo di boschi incolti e città tentacolari, lunghe passeggiate mano nella mano nei già turbanti e perturbanti centri commerciali giapponesi, in collegi che anacronisticamente dettano delle regole mentre la gioventù si ubriaca e si accoppia più o meno allegramente ossequiando più che gli antichi riti pan-religiosi la legge del mordi e fuggi, stanotte tu e domani un'altra.
E poi.
Le paranoie e le frustrazioni indecise di Toru, io narrante, che si riversano sull'impossibilità di amare la bella e frigida Naoko, progressivamente facile preda di incubi dell'inconscio e sulla difficoltà di capire l'innamoramento per Midori, frizzante e sessantottina nell'anima, posseduta dalla voglia di vivere, mentre un amico torbido e presente come Nagasawa non fa che alimentare ed aumentare il rammarico e il vuoto lasciato dalla morte dell'unico vero amico avuto, Kizuki, ex fidanzato di Naoko in un legame spiritualeggiante e mistico, più che carnale ed adolescenziale. E poi Reiko, la ragazza mai sbocciata ed ormai verso i quaranta con una certa paura.
Certo la storia è lenta con approfondimenti circolari e concentrici, che si restringono sempre più fino quasi a strangolare qualsiasi speranza di riscatto, qualsiasi efflato teso ad un futuro.
Un tenebroso e cupo senso di morte, oltre che di malinconia, pervade le pagine. Una perdita dell'innocenza più che vissuta subita e neanche troppo accettata.
Norwegian wood (il cui sottotitolo è Tokyo blues, molto più evocativo) è un romanzo impegnativo, profondo, intessuto di fragilità molto compatte, molto solide, che narra di un progressivo sbriciolamento di fronte alla realtà che non porta però nessuna disintegrazione assoluta ma un barlume di prossima e meno friabile rigenerazione.
Di solito leggere uno scrittore di estrazione così lontana è spinta ed animata dalla curiosità, dalla voglia di assaporare attraverso le parole spiriti, tensioni e panorami di terre se non irraggiungibili certo sconosciute. Il fascino discreto dell'esotico la fa da padrone. Ma in Murakami il Giappone che leggiamo è già decisamente occidentale, vuoi per la natura extraterritoriale dell'autore vuoi per una spinta irrefrenabile della stessa società nipponica tesa ed ammaliata da ritmi e tenori filo americani, se non europei.
Questa progressiva perdita di identità nazionale non so se sia un bene.
In ogni caso, per curiosi richiami e coincidenze, di recente ho visto il film Babel , ecco anche quel Giappone occidentale è lo stesso di Murakami.


Lo stesso che a suo tempo percepii nella Yashimoto, forse la più nota scrittrice nipponica in Europa. Certo poi altri innervature profonde meritano di essere sottolineate. Come per esempio un filosofico e quasi canonico ricorso al suicidio per sfuggire alle ineluttabili verità della vita. Una scappatoia drammatica e senza ritorno, che accentua il senso di sconfitta e la rapace malinconia che pervade l'intero testo. E poi questo io narrante, Toru, che è stato avvicinato ai grandi del romanzo di formazione, da quelli ottocenteschi come il David Copperfield di Dickens o il più contemporaneo Holden di Salinger. Io personalmente in maniera molto forte ho trovato il Ben (alias Dustin Hoffmann) del film il Laureato, in una storia più complicata ma nel complesso meno torbida ed ancestrale. Ma è in generale che la struttura del romanzo è rapportabile a grandi classici ottocenteschi, soprattutto russi, in particolare l'indagine inquieta e sottotraccia dell'ombra dentro noi che ha svolto Dostoevskji nei suoi romanzi più e meno famosi.
E poi altri temi atavici, avari, usurati.
Realtà contro fantasia, ragione (nel senso di esercizio delle facoltà razionali) contro la pazzia. E poi la assoluta dicotomica, schematica complementarità dei due amori di Toru, Naoko e Midori, due modi estremi di essere donna, talmente estremi da non essere quasi possibili, reali.

Queste le riflessioni più importanti che allora mi sovvengono. Un doppio binario di lettura. Una parabola decadente e malinconica che racconta di un sostanziale e progressivo depauperamento delle proprie realtà esistenziali e geografiche, un inaridimento delle proprie terre natie, un rinsecchimento delle proprie radici ai fini di un approccio all'Eldorado che poi forse terra dell'oro non è, e che si chiama Occidente e si chiama maturità. Una spersonalizzazione progressiva ed inesorabile.
Non entusiasmante in toto, forse discontinuo, ma ben scritto e con una poetica di fondo ben lontana da logiche editoriali di mercato e tesa ad esplorare alcune tendenze dell'uomo contemporaneo, occidentale o nipponico che sia.

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