L'odore del sesso? Perché no, citando una canzone dello stereotipato Ligabue. Con gli occhi chiusi ma i sensi tutti vigili e in allerta. Siena, Toscana, inizio Novecento.
Pietro è un ragazzino, scosso da fremiti interiori e avvinghiato dal silenzio, strozzato dalla timidezza, affossato dal padre rozzo e manesco, uomo tutto "roba" e risparmio, che si divide fra la bettola di proprietà e il podere ma l'affetto non sa dove sia di casa.
Il ragazzo prova indistinti ma indistruttibili pruriti dettati dagli odori che nessuna madre può annusare, che nessun padre anche violento può vietare, che nessuna forza famigliare può arrestare insomma, anche se però teme, ché la campagna non assorbe e l'adolescenza, invece, soffre.
Pietro si innamora. E nulla sarà come prima, si sa.
Ghisola.
Una povera ragazzetta, senza madre o padre, emana olezzi che nessun virtuoso potrà resistere.
Ghisola, tra le spighe e le torture ai rospi che s'avvicinano, tra le feste e le infestazioni di drammi di quartiere, perfettamente incollati alle vigili e terribili leggi del buon comportamento, sarà l'avvicinamento al sesso, all'odore del sesso, a quella prima volta che diventerà magari seconda e terza, anche quarta se dice bene, ma che comunque segna improrogabilmente l'iniziazione a quella meravigliosa vertigine, a quella incredibile ruggine, a quella magica fuliggine che i grandi chiamano sesso, i critici letterari accoppiamento. Pietro ne rimarrà ubriacato.
Dove parla il silenzio a volte esiste il rumore.
Dove non c'è viatico alla conoscenza, dove si chiudono gli occhi, si vedono solo i sogni. C'è quella maledetta recita popolare per cui sognare é meglio che vivere. Non provateci, boys, qui si rischia l'insonnia, notti senza sonno, biascicare parole intendendo frasi compiute.
E i sogni sono fantastici palliativi della realtà, sono surrogati e anfetamine, ma non bastano perché qualunque medicina miracolosa prima o poi sperde gli effetti, si stanca e si tedia a sopraffare i malumori e allora non resta che l'essere.
Essere.
Essere. Qualcosa. Qualcuno. Meglio di niente.
Uomini, o donne, essere e basta, dilaniati di certo ma comunque esistenti e con la voglia di esistere. Non c'é debolezza che non possa diventare coraggio, non c'è sconfitta che prima o poi si possa diluire nella vittoria e nella serenità.
Pietro, raccontato con linguaggio glabro e innocente, ovviamente antico dato che si tratta di un romanzo d'inizio novecento, rappresenta una vivace pietra miliare della conoscenza del mondo, a metà fra espressionismo e lirismo post verghiano ( Verga "I malavoglia"), in una forma e sostanza che allontana il demiurgo d'occasione, Federigo Tozzi, l'autore, dai paludosi canoni italici di tradizione ed immobilismo e si trasporta verso l'aurea luce del capolavoro, in un periodo dove in narrativa furoreggiano solo dannunziani frustrati e improbi futuristi.
Questo libro dunque è fortemente suggerito a chi pensa che il romanzo italiano di quell'epoca sia stretto fra le sacre triadi o poker che dir si voglia Manzoni-Verga-Pirandello-Svevo, con l'aggiunta dei deliri assolutamente estetizzanti (ma narcotizzanti) del D'annunzio pre-belligerante, raccomandato a chi insegna anche se il comandamento é che la letteratura non ha niente da insegnare, ma tutto da dire.
Questo è autore doc, peraltro misconosciuto, finché De Benedetti, autorevole cattedratico, negli anni sessanta non ne decretò la fama illustrandone con perizia le capacità.
Tozzi rappresenta, nelle sue aspre durezze, nel suo ostico linguaggio, un laido ma limpido esempio della narrativa italiana di inizio novecento, fuori schema e non declamata quale aulico esempio dell'inno di Mameli fatto letteratura, ma virile narrazione ben trasposta, come non capita spesso. Non a caso il film della Archibugi di anni relativamente recenti è degna e non mera o sciocca traduzione.
Pietro è un ragazzino, scosso da fremiti interiori e avvinghiato dal silenzio, strozzato dalla timidezza, affossato dal padre rozzo e manesco, uomo tutto "roba" e risparmio, che si divide fra la bettola di proprietà e il podere ma l'affetto non sa dove sia di casa.
Il ragazzo prova indistinti ma indistruttibili pruriti dettati dagli odori che nessuna madre può annusare, che nessun padre anche violento può vietare, che nessuna forza famigliare può arrestare insomma, anche se però teme, ché la campagna non assorbe e l'adolescenza, invece, soffre.
Pietro si innamora. E nulla sarà come prima, si sa.
Ghisola.
Una povera ragazzetta, senza madre o padre, emana olezzi che nessun virtuoso potrà resistere.
Ghisola, tra le spighe e le torture ai rospi che s'avvicinano, tra le feste e le infestazioni di drammi di quartiere, perfettamente incollati alle vigili e terribili leggi del buon comportamento, sarà l'avvicinamento al sesso, all'odore del sesso, a quella prima volta che diventerà magari seconda e terza, anche quarta se dice bene, ma che comunque segna improrogabilmente l'iniziazione a quella meravigliosa vertigine, a quella incredibile ruggine, a quella magica fuliggine che i grandi chiamano sesso, i critici letterari accoppiamento. Pietro ne rimarrà ubriacato.
Dove parla il silenzio a volte esiste il rumore.
Dove non c'è viatico alla conoscenza, dove si chiudono gli occhi, si vedono solo i sogni. C'è quella maledetta recita popolare per cui sognare é meglio che vivere. Non provateci, boys, qui si rischia l'insonnia, notti senza sonno, biascicare parole intendendo frasi compiute.
E i sogni sono fantastici palliativi della realtà, sono surrogati e anfetamine, ma non bastano perché qualunque medicina miracolosa prima o poi sperde gli effetti, si stanca e si tedia a sopraffare i malumori e allora non resta che l'essere.
Essere.
Essere. Qualcosa. Qualcuno. Meglio di niente.
Uomini, o donne, essere e basta, dilaniati di certo ma comunque esistenti e con la voglia di esistere. Non c'é debolezza che non possa diventare coraggio, non c'è sconfitta che prima o poi si possa diluire nella vittoria e nella serenità.
Pietro, raccontato con linguaggio glabro e innocente, ovviamente antico dato che si tratta di un romanzo d'inizio novecento, rappresenta una vivace pietra miliare della conoscenza del mondo, a metà fra espressionismo e lirismo post verghiano ( Verga "I malavoglia"), in una forma e sostanza che allontana il demiurgo d'occasione, Federigo Tozzi, l'autore, dai paludosi canoni italici di tradizione ed immobilismo e si trasporta verso l'aurea luce del capolavoro, in un periodo dove in narrativa furoreggiano solo dannunziani frustrati e improbi futuristi.
Questo libro dunque è fortemente suggerito a chi pensa che il romanzo italiano di quell'epoca sia stretto fra le sacre triadi o poker che dir si voglia Manzoni-Verga-Pirandello-Svevo, con l'aggiunta dei deliri assolutamente estetizzanti (ma narcotizzanti) del D'annunzio pre-belligerante, raccomandato a chi insegna anche se il comandamento é che la letteratura non ha niente da insegnare, ma tutto da dire.
Questo è autore doc, peraltro misconosciuto, finché De Benedetti, autorevole cattedratico, negli anni sessanta non ne decretò la fama illustrandone con perizia le capacità.
Tozzi rappresenta, nelle sue aspre durezze, nel suo ostico linguaggio, un laido ma limpido esempio della narrativa italiana di inizio novecento, fuori schema e non declamata quale aulico esempio dell'inno di Mameli fatto letteratura, ma virile narrazione ben trasposta, come non capita spesso. Non a caso il film della Archibugi di anni relativamente recenti è degna e non mera o sciocca traduzione.
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