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Cosa resterà degli anni Ottanta? Sì lo so, lo cantava Raf in un'amena canzonetta, tempo fa. Pardon. Se ne parla ancora molto, oggi, di quel decennio. Anni così diversi da ora, a sé stanti, così intorpiditi ed aleatori. E così c'è chi si immalinconisce, perché erano gli anni della adolescenza, ormai perduta e li ammanta di nostalgia senza ritegno. Ma c'è anche chi li detesta oppure chi invece li idolatra e difende a spada tratta, elencandone mode, invenzioni, irrequietezze, tremori ed amori.
Parliamo di opinione comune, non di letteratura.
Gli anni Ottanta sono passati, non ci piove. E non ci nevica. E non sta certo a me decretare quanto peso, o sapore hanno lasciato negli anni a venire. Ma questo romanzo di Veronesi, autore del successo editoriale "Caos calmo", nell'allora nel 1991 alla sua seconda prova narrativa, è insieme all'incompleto ma storico "Rimini"di Tondelli, probabilmente il più significativo, meno retorico, moralista o banale narrato su quegli anni. Mio parere, ovvio. E ovviamente trattasi di sensazione. A volte la letteratura è intuizione. Questione di chimiche narrative, di sapienze scrittorie, di.
Anche se la contestualizzazione e l'eventuale trama potrebbero lasciar pensare ad un normale romanzo su alcune morbosità di certi amori fuori dalle righe.
Il perno centrale sono le due settimane che Belinda, sensuale ragazza, passerà dal fratellastro Méte poiché il padre di lui ed la madre di lei hanno finalmente coronato con matrimonio il proprio amore clandestino. Ma non ci si ferma a queste apparenze.
Nei personaggi di Méte, Bruno, Damiano, Belinda, il filippino Dani, sua moglie, i suoi compatrioti, c'è una comunanza assordante, tutti insieme quasi appassionatamente fragili e leggeri, spensierati eppure atterrati ed atterriti dalle loro paure, dal loro stupefatto cercare di vivere, in un'atmosfera romana spesso afosa e senza cuore, quasi da stereotipata metropoli nordica, in una società dai connotati alto borghesi come in fondo molti in quegli anni riuscirono ad essere per immotivate esuberanze economiche e dunque pur senza esserlo né prima e né dopo quell'aureo e quasi illusorio decennio. Identità non pervenute allora, o perlomeno alla ricerca di sostanziarsi ma senza eccessivo piglio o decisione, più che altro seguendo il percorso che il fiume della vita traccia.
E quindi ecco pensieri ovattati, serate da disperdere in locali luminosi quanto scoloriti, traghettati dai "carontini", pallidi esseri notturni alla ricerca di un amore o di un'amicizia brancolando da un tavolo all'altro senza passione né penetrazione, un senso di solitudine e di malinconia tipicamente post-adolescenziale in un mondo che sembra nascondere e promettere molto più bruttezze efferate dietro una plastica facciale se non sgargiante spesso benevolente, quasi paterna, una specie di chioccia che però si rivelerà come serpe nel seno. Eppure il Dna comune è una quasi gaia frivolezza, seppur ammantata di indecisioni e con qualche innata rabbia annidata negli antri del cuore. E via, allora, con gesti anarchici quanto velleitari ed a fondo perduto, come la protesta a mezzo manifesto che Mète e l'attempato enigmatico e scontroso Bruno mettono in scena reclamando un teatro più puro e meno corrotto, vuoto, senza sostanza, gesto che però simbolicamente viene ignorato se non tramortito e travisato dai mass media e dunque ben presto adagiato in naftalina e sprofondato nel baratro dell'inutile, del dimenticato. Indifferenza, apatia, ma anche curiosità e timore, ricerca e sconfessione, lucidità e follia. Mète vive ed incarna il tipico giovane di quegli anni per cui tutto è ad un passo, ma non si riesce ad averlo per intero, a possederlo, a circoscriverlo, a renderlo tangibile. Senza vero amore né rabbia. E Belinda rappresenta il desiderio come la dannazione, il coraggio come la vergogna, l'amore come l'impossibile, il reale come il sognoEd è per questo che il titolo "Gli sfiorati" appare azzeccato, emblematico e connotante una intera generazione e non solo i protagonisti. In queste movenze rarefatte ed impacciate, dubbi che s'attorcigliano sebbene non siano così profondi o dimidianti. Mète subirà il fascino ben noto della sorellastra Belinda, accanita fumatrice di erba e più che angelo una sorta di sensuale bambola alla ricerca di una identità anch'essa, in bilico fra ansia e rassegnazione, disperazione ed anelito a.
Più che alienazione si avverte una drammatica perdita di senso e di ricerca di significanza, il tutto però ammorbidito e quasi reso dolce dalla bambagia che fu tipica di quegli anni, dove ogni caduta è attenuata e quasi resa inoffensiva da molli materassi prontamente stesi dal contesto sociale tutto impegnato a svuotare le idee e gli ideali così tracimanti e deleteri nel decennio precedente al fine di poter riorganizzare le fila del potere precostituito e dare lunga vita alla conservazione e alla immobilità.
E poi la schiumevolezza, il tratto evidente, quasi universale che Mète, con la sua conoscenza appassionata ed approfondita di una sorta di scienza "magica" quale la grafologia, legge nella scrittura dei ragazzi e delle donne che gli offrono la propria grafia per avere una dimensione, una personalità, un giudizio.
"...è una parola che mi suona bene (...) Perché il concetto c'è, eccome: e non è superficialità, né mera scelleratezza, né volubilità, né leggerezza, né semplice ignavia, o irresponsabilità, o sola distrazione, svagatezza" dice Méte . Uno schiumare pervaso e intessuto di forme, comportamenti, disturbanze e turbolenze sempre diverse, in maniera di assuefarsi e adeguarsi all'eterno contingente senza mai prendere forma e senza mai dargli forma, sfiorandolo appunto. Una trovata narrativa e paradigmatica, semplice e complice delle intenzioni "generazionali" che credo sottendano l'opera.Non mancano poi i riferimenti al Padre, figura onnipresente, mi sembra, in Veronesi, in quanto cardine essenziale del primo romanzo ad esempio, Per dove parte questo treno allegro. Ed anche qui siamo tra lo scanzonato e lo "sfigato", siamo "tra", mai letteralmente in mezzo, impaludati oppure. E nemmeno a destra o sinistra.Molti e variegati gli episodi riusciti, in un testo che però non perde mai il filo della trama e non si disperde in mille rivoli, insomma abbastanza calibrato, con un humus creativo ispirato che regala pagine di lucida, ironica e mai sostenuta bravura.
A sorpresa citazioni inaspettate, come "La paga del soldato" di Faulkner, a dimostrazione di una ricerca letteraria non fine a sé stessa.. Con il solito piglio leggero ma non troppo, con uno stile assolutamente personale anche se non completamente estraneo alla più classica tradizione narrativa italiana ed una certa misura, a volte incrinata dall'unico evidente difetto, poiché il ritmo e la trama si sfilacciano nelle eccessive e ridondanti titubanze ormonali di Mète verso la sorella, Veronesi tinteggia un affresco chiaroscuro dallo spessore però convincente, senza regalare spazio al banale, al retorico ovvero sconfinando nel gretto e rozzo criticare per criticare, offrendo al lettore una appagante lettura dal sapore dolce-amaro, compreso il platonico finale non scevro da qualche lacerante rimorso, avendo il merito ed il pregio di rendere in letteratura quello che a ben pensarci furono in realtà quegli anni. O, perlomeno, quello che furono per me e come avrei voluto leggerli.
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