Ci sono tanti modi di raccontare una storia. Ognuno sceglie il più
consono. Ma certe scelte sono più coraggiose di altre. "Esercizi sulla
madre", terzo romanzo del napoletano Luigi Romolo Carrino, classe 1968,
autore anche di poesie, racconti e testi teatrali, è un libro coraggioso,
ostico ma ben fatto. Bello, per usare un aggettivo tanto pieno quanto forse
abusato e banale. Non solo per l'argomento, ma per lo stile.Un bambino, la
madre, una giovanissima mente preda di una malattia tanto rara quanto crudele.
Ed un gioco che è un rituale ma che in realtà è una cura.
Giuseppe deve
solo ricordare. Ma non è facile, la sua mente è preda di dissociazioni
patologiche. Il dramma interiore vissuto più di trenta anni prima, un 27
febbraio 1976, quando rimase su uno scalino sulla porta di casa per dieci
lunghe ore ad aspettare una mamma che era uscita e non tornava. Trattasi di un
ostacolo molto arduo da superare.
Lo dovranno aiutare le dieci tavole di Rorschach, utilizzate
in psicodiagnostica (cit. Wikipedia), volte alla indagine della personalità e
dove si stimola il paziente ad associare alle macchie raffigurate ricordi e
sensazioni a ruota libera.
Giuseppe farà allora questo
cruento e difficile percorso a ritroso, dieci tavole, dieci esercizi, dieci
madri diverse eppure uguali che a lui risultano ciascuna accompagnata ad un demone.
Lo scavo sarà impietoso e il morboso e crudele puzzle alla fine verrà
ricomposto e dell'abisso del profondo di una mente dissestata nitidi e chiari
emergeranno l'amore ed il dolore, due facce di una stessa terribile cruda e
crudele verità.
Un dramma
familiare come e più di tanti che sfocia nella tragedia più cupa. Storia di
abbandoni, insensibilità, amori travasati e travolgenti, l'unicità e a volte
irrimediabile, invincibile forza del legame che può stringere, costringere,
costipare una Madre ed un Figlio.
Come
sempre ripeto, spesso, è lo stile che distingue la Letteratura dal mero
scritto. Un accurato lavoro di riorganizzazione della sintassi, della proprietà
transitiva e intransitiva dei verbi senza per questo accedere a semantiche
oscure, anzi. Nei capitoli dove parla Giuseppe (cui fa poi da controcanto un
capitolo dove recita e strapazza tutti la Madre) la follia e la ricerca della
verità sono spesso ed essenzialmente linguaggio, oltre che metafore forti. E si
viene avvinti ed avvinghiati da questo intenso lavorio formale, tutt'altro che
velleitario.
D'altronde Carrino non si nasconde. Dedica apertamente il libro, fra gli altri,
agli autori “che
cercano nuovi modi di raccontare,nonostante.”. Fa piacere che ci
sia ancora chi con passione e talento ricerchi in piena era internettiana e di
appiattimento, una via letteraria all'espressione. Il libro ha dunque un
nucleo narrativo abbastanza semplice elementare, ma è la lingua dell'autore a
complicare, solidificare e narrativizzare il tutto.Sinceramente non ho letto
molti romanzi dedicati a malattie mentali e personaggi in preda al delirio. Ma
certo che l'unico paragone che posso fare è con la esemplare e devastante prima
parte di “Urlo e
furore” di Faulkner, in cui l'io narrante è quello di Benjy,
malato di mente. Tutt'altro tema e linguaggio, ma anche lì la bellezza verbale
della pazzia insorge ed ammalia.
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