02 febbraio 2018

Canto della pianura (Kent Haruf)

Doveva prima o poi succedere che leggessi anche Haruf. Complice la mia leggendaria distrazione, son partito dal secondo capitolo di una trilogia invece che dal primo. Dal mezzo insomma, come nel mezzo del cammin di nostra vita sono quasi tutti protagonisti di questa storia, al di là che abbiano diciassette o settant’anni, poiché gli sbagli propri o quelli altrui li mettono davanti a delle scelte. Romanzo costruito su più punti di vista che raccontano le proprie vicende che alla fine vengono assorbite da un’unica grande storia, quella del nostro quotidiano fatto di normai disturbanze, improvvisi cambiamenti che ci cambiano tutto eppure ci lasciano così come siamo. Essere umani, con tutto ciò che questo comporta. Una narrazione dal piglio sicuro e senza fronzoli pervasa di intensa umanità.

Come si fa ad non essere con gli anziani fratelli McPheron, induriti dal freddo di questa isolata cittadina di Holt, che nella vita hanno parlato solo con le proprie mucche e ascoltato solo il canale radio che aggiornava i prezzi sia della carne che del mangime? Statuari quanto friabili in alcuni attimi, dove il peso degli anni vissuti assieme senza genitori e sempre da soli in quella loro fattoria gli fa balenare la sensazione che la vita può essere anche altro.

E ci troviamo preda delle stesse ansie di Guthrie, che deve digerire l’abbandono della moglie, badando nel frattempo a due figli piccoli che si avventurano di continuo pericolosamente ed affrontare con piglio deciso i problemi che gli dà la scuola dove insegna, in particolare la violenza e l’arroganza di uno sbandato suo studente e dei suoi due rissosi genitori.

Nel panorama desolato dell’istituto almeno in ambito relazionale, meno che c’è la collega Maggie, donna risolta e risoluta, accetta la solitudine anche se non le piace e sa quel che vuole. Se non lo ottiene se ne fa una ragione tira avanti, senza se o ma. E poi infine Victoria, sbadata e sbandata quanto basta per farsi mettere in cinta ancora minorenne, irritando talmente la nevrotica madre da farsi cacciare da casa, ma il bimbo lo terrà, costi quel che costi, potete star sicuri. Ha abbandonato i suoi dicisette anni e dora si trova in difficoltà ad essere donna senza essere stata mai o non completamente ragazza. E al diavolo quel belloccio di Dwayne, dileguatosi appena saputo di essere padre, giovane ed egoista com’è egoista come può pensare di avere un figlio.

Stile affatto secco e nervoso, ampie digressioni per rinsaldare rafforzare l’idea di un posto isolato dal mondo, dove vigono ancora quasi le leggi primordiali della natura, nessun paragone da fare con altri, Haruf ha una sua cifra stilistica, l’unica che mi vien in mente è la Strout di Olive Kitteridge, ma più per la struttura che per analogie di diversa natura.

Ennesimo scrittore statunitense se vogliamo più legato alla tradizione classica di quella narrativa a differenza di altri ancora viventi, a sua differenza, che altro scelto altre strade, per certi versi europeizzandosi. Mi riferisco ai vari Roth e Franzen, più che alla novelle vogue postmoderna che si è ampiamente nutrita di De Lillo ed i cui esponenti più noti sono forse Eggers e Wallace, due autori che mio malgrado non ho proprio digerito. Amen. 

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