Un racconto breve. Scarno. Lineare.
Un remoto gioiello del colombiano Marquez, scritto nel 1957, considerata "la prova più riuscita ed equilibrata, più completa ed esatta del primo periodo dell'attività letteraria".
Una mirabile e perfetta costruzione narrativa, solida come roccia, densa come i profumi e gli odori che solo una terra secolarmente impregnata di magia può sprigionare.
Siamo nell'anno del mai e del sempre possibile, in nessun luogo ed in ogni posto, il colonnello aspetta la sua lettera per la pensione da quindici anni, mentre si toglie dal piatto le briciole per allevare il suo valoroso tesoro, unico inestimabile tesoro: il suo gallo da battaglia vivo e vegeto, come quello che si affaccia tra i versi della canzone "Pablo" di Francesco de Gregori. E il racconto vi porta assieme a lui, nel cuore della sua limpida e cieca determinazione, nel suo quotidiano pellegrinaggio all'ufficio postale, nella sua intensa fiducia per il suo combattente a due zampe, emblema della speranza indomita di essere eroe per un giorno e di poter mangiare lardo e pane per un mese intero senza strozzarsi nei debiti, poter finalmente aspirare a realizzare qualche piccolo remoto sogno: "--Allora sarà già passato l'anno di lutto e potremo andare al cinema La donna rise a bassa voce --Non mi ricordo neanche più come è fatto" Siamo in provincia di Macondo, la città dove nasce vive e muore all'infinito la saga che innerva "Cento anni di solitudine", il romanzo più noto dello scrittore, un microcosmo galattico che respira tutte le stelle, meteoriti e pianeti vaganti dell'universo umano, in salsa evidentemente sudamericana. Un non luogo che abita solo nella fantasia del suo abile architetto, e la sua compatta inneffabilità si traduce in una proiezione letteraria dove ogni pagina dischiude mondi nascosti o semplicemente intuiti, un dischiudersi tutto intrioettato all'interno della sostanza narrativa, protetto dai possibili annacquamenti veri o presunti che il mondo fuori, il mondo per così dire reale, può arrivare a. Lo sfogliare pagina è come guardare al di là della siepe, scoprire d'incanto "...Interminati spazi, di là da quella e sovraumani silenzi". Ma in questo racconto lungo non abbiamo la sterminata e animata, feconda galleria di presenze sospese tra ultra e terreno che fanno parlare di realismo magico come cifra stilistica dell'autore. Siamo in una provincia di quella densissima geografia mentale. Ma anche qui, dove il colonnello vive, si pensa che il mondo sia solo e solamente spiritualità e destino, un mondo talmente magico da essere tristemente reale, ciclico, lento, inarrestabile e continuo. Non ci crederebbero mai i protagonisti (La moglie del colonnello, il medico, Don Sabas) che fuori, qua fuori, siamo messi così, fermi, vuoti, come in una cartolina ingiallita dal tempo, intestarditi su concupiscenze materiali ed evanescenti, dediti al ripetitivo, incapaci di digerire ancora la forza di scegliere, la voglia di avere, sentire, cambiare. Una serie indefinita ed indefinibile di rimandi legano fra loro questo racconto, quelli apparsi con il titolo "I funerali della Mamà grande", il romanzo "La mala hora", e gli altri capolavori quali "Cronaca di una morte annunciata" e "L'autunno del patriarca", Qui, nel breve testo, echeggiano figure narrative, archetipi della narrativa marqueziana. La morte sempre in agguato, inevitabile ma sempre combattuta, la povertà, la ciclicità del tempo e la dura perseveranza del clima, il funerale come momento topico delle vite passate ma anche future, il potere inattaccabile anche nella sua goffa e stolida bruttura fisica e morale, la dignità e la superbia di chi è nato povero di averi ma ricco nell'essere e nello stare al mondo. La moglie del colonnello, ad esempio. Lo ama. lo coccola. Lo segue.Si fida ciecamente di lui. E ciecamente, con quieta rassegnazione, ne ascolta invettive, recriminazioni, impazienze. E con lui condivide la fame, l'attesa, la speranza, la consapevolezza arida e ingobbita da malesseri della incipiente vecchiaia e strofinati dolorosamente dal tempo umido e fastidioso:: "Tutto è così. Stiamo marcendo vivi. E chiuse gli occhi" Natura, segnata dal destino e dall'oppressione, dalla sconfitta e dalla voglia di vincere, dalla maledizione e dalla superstizione, ma con quella impareggiabile voglia, che solo l'essere umano può avere, di avere vita e di vivere questa voglia. Fuori dal loro modesto focolare, si aggirano le anime di altre storie e leggende, come quella dei valorosi colonnelli della stirpe Buendia, che ci daranno gioie e dolori affollando a giorni alterni il capolavoro indiscusso dell'autore: "--Con chi stai parlando --Con nessuno-- disse il colonnello. --Stavo pensando che nella riunione di Macondo avevamo ragione quando abbiamo detto al colonnello Aureliano Buendìa di non arrendersi. E' stato quello a mandarci a rotoli" E c'è il profilo di un destino a volte lucido e a volte bastardo, il senso dell'inesorabile continuo scorrere del tempo, c'è la parabola dell'amore, degli amori possibili o impossibili, voluti o subiti, solubili o volubili, ci sono le tradizioni e le aspirazioni, l'ineluttabile e l'imponderabile, c'è la vita che più vita non si può in questa città senza nome che un nome ce l'ha: il tempo che passa. "--Se avessi vent'anni di meno sarebbe diverso --Lei avrà sempre vent'anni di meno -- ribatté il medico Il colonnello riprese fiato. attese che Don Sabas dicesse qualcosa di più, ma non lo fece" Nella ciclicità dei sogni che appaiono e scompaiono, in questa breve saga che rifiuta la sconfitta pur perdendo ad ogni istante, noi ritroviamo un pezzetto di anima, una particella di DNA emotivo che ci appartiene, una congiunzione che scavalca l'oceano atlantico e come un pensiero migratore, empaticamente, va a planare in questo Sud America impersonificato dal Colonnello ed il suo lungo ottobre fatto di reumatismi, foschi pensieri, recriminazioni ed indolenza Un vero e proprio inno all'ostinazione dignitosa e non compassionevole, alla rabbia composta, alla volontà di vivere anche se matematicamente, inesorabilmente i sogni non sempre si avverano. Anzi, a volte quasi mai.
Siamo nell'anno del mai e del sempre possibile, in nessun luogo ed in ogni posto, il colonnello aspetta la sua lettera per la pensione da quindici anni, mentre si toglie dal piatto le briciole per allevare il suo valoroso tesoro, unico inestimabile tesoro: il suo gallo da battaglia vivo e vegeto, come quello che si affaccia tra i versi della canzone "Pablo" di Francesco de Gregori. E il racconto vi porta assieme a lui, nel cuore della sua limpida e cieca determinazione, nel suo quotidiano pellegrinaggio all'ufficio postale, nella sua intensa fiducia per il suo combattente a due zampe, emblema della speranza indomita di essere eroe per un giorno e di poter mangiare lardo e pane per un mese intero senza strozzarsi nei debiti, poter finalmente aspirare a realizzare qualche piccolo remoto sogno: "--Allora sarà già passato l'anno di lutto e potremo andare al cinema La donna rise a bassa voce --Non mi ricordo neanche più come è fatto" Siamo in provincia di Macondo, la città dove nasce vive e muore all'infinito la saga che innerva "Cento anni di solitudine", il romanzo più noto dello scrittore, un microcosmo galattico che respira tutte le stelle, meteoriti e pianeti vaganti dell'universo umano, in salsa evidentemente sudamericana. Un non luogo che abita solo nella fantasia del suo abile architetto, e la sua compatta inneffabilità si traduce in una proiezione letteraria dove ogni pagina dischiude mondi nascosti o semplicemente intuiti, un dischiudersi tutto intrioettato all'interno della sostanza narrativa, protetto dai possibili annacquamenti veri o presunti che il mondo fuori, il mondo per così dire reale, può arrivare a. Lo sfogliare pagina è come guardare al di là della siepe, scoprire d'incanto "...Interminati spazi, di là da quella e sovraumani silenzi". Ma in questo racconto lungo non abbiamo la sterminata e animata, feconda galleria di presenze sospese tra ultra e terreno che fanno parlare di realismo magico come cifra stilistica dell'autore. Siamo in una provincia di quella densissima geografia mentale. Ma anche qui, dove il colonnello vive, si pensa che il mondo sia solo e solamente spiritualità e destino, un mondo talmente magico da essere tristemente reale, ciclico, lento, inarrestabile e continuo. Non ci crederebbero mai i protagonisti (La moglie del colonnello, il medico, Don Sabas) che fuori, qua fuori, siamo messi così, fermi, vuoti, come in una cartolina ingiallita dal tempo, intestarditi su concupiscenze materiali ed evanescenti, dediti al ripetitivo, incapaci di digerire ancora la forza di scegliere, la voglia di avere, sentire, cambiare. Una serie indefinita ed indefinibile di rimandi legano fra loro questo racconto, quelli apparsi con il titolo "I funerali della Mamà grande", il romanzo "La mala hora", e gli altri capolavori quali "Cronaca di una morte annunciata" e "L'autunno del patriarca", Qui, nel breve testo, echeggiano figure narrative, archetipi della narrativa marqueziana. La morte sempre in agguato, inevitabile ma sempre combattuta, la povertà, la ciclicità del tempo e la dura perseveranza del clima, il funerale come momento topico delle vite passate ma anche future, il potere inattaccabile anche nella sua goffa e stolida bruttura fisica e morale, la dignità e la superbia di chi è nato povero di averi ma ricco nell'essere e nello stare al mondo. La moglie del colonnello, ad esempio. Lo ama. lo coccola. Lo segue.Si fida ciecamente di lui. E ciecamente, con quieta rassegnazione, ne ascolta invettive, recriminazioni, impazienze. E con lui condivide la fame, l'attesa, la speranza, la consapevolezza arida e ingobbita da malesseri della incipiente vecchiaia e strofinati dolorosamente dal tempo umido e fastidioso:: "Tutto è così. Stiamo marcendo vivi. E chiuse gli occhi" Natura, segnata dal destino e dall'oppressione, dalla sconfitta e dalla voglia di vincere, dalla maledizione e dalla superstizione, ma con quella impareggiabile voglia, che solo l'essere umano può avere, di avere vita e di vivere questa voglia. Fuori dal loro modesto focolare, si aggirano le anime di altre storie e leggende, come quella dei valorosi colonnelli della stirpe Buendia, che ci daranno gioie e dolori affollando a giorni alterni il capolavoro indiscusso dell'autore: "--Con chi stai parlando --Con nessuno-- disse il colonnello. --Stavo pensando che nella riunione di Macondo avevamo ragione quando abbiamo detto al colonnello Aureliano Buendìa di non arrendersi. E' stato quello a mandarci a rotoli" E c'è il profilo di un destino a volte lucido e a volte bastardo, il senso dell'inesorabile continuo scorrere del tempo, c'è la parabola dell'amore, degli amori possibili o impossibili, voluti o subiti, solubili o volubili, ci sono le tradizioni e le aspirazioni, l'ineluttabile e l'imponderabile, c'è la vita che più vita non si può in questa città senza nome che un nome ce l'ha: il tempo che passa. "--Se avessi vent'anni di meno sarebbe diverso --Lei avrà sempre vent'anni di meno -- ribatté il medico Il colonnello riprese fiato. attese che Don Sabas dicesse qualcosa di più, ma non lo fece" Nella ciclicità dei sogni che appaiono e scompaiono, in questa breve saga che rifiuta la sconfitta pur perdendo ad ogni istante, noi ritroviamo un pezzetto di anima, una particella di DNA emotivo che ci appartiene, una congiunzione che scavalca l'oceano atlantico e come un pensiero migratore, empaticamente, va a planare in questo Sud America impersonificato dal Colonnello ed il suo lungo ottobre fatto di reumatismi, foschi pensieri, recriminazioni ed indolenza Un vero e proprio inno all'ostinazione dignitosa e non compassionevole, alla rabbia composta, alla volontà di vivere anche se matematicamente, inesorabilmente i sogni non sempre si avverano. Anzi, a volte quasi mai.
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