Questa notte
è ancora nostra?
Facciamo di sì. Che poi notte vuol dire ed è tante cose.
C’è
una notte che si approssima e come tutte le notti porterà un tanto buio e forse
uno o più spicchi di luna nelle vite degli umani. C’è questa eterna metafora
dello scorrere del tempo che poi tante volte pare rimanere fermo, questo insito
richiamo al “cogli l’attimo” di oraziana memoria, ma poi, di che attimo
parliamo e come cogliere e poi, tutto questo, andatelo a dire a chi comincia a
titubare, temere, quasi avere paura che non sempre dopo questa notte ci sarà
comunque un alba come istrioneggiava il carismatico leader del gruppo rock dei
Doors, pavoneggiandosi in un età e grazie all’aiuto di droghe che anche se
effimere regalano sempre luci e poche ombre, tranne quando ti svegli e devi
fare i conti con il cervello e il fegato malmessi.
Stevens è un maggiordomo
tutto d'un pezzo. Indomito, coriaceo, fedele, fedelissimo. Talvolta granitico
come una roccia primordiale che nessun vento secolare o di passaggio, nessuna
infiltrazione di nessuna natura potrà mai scalfire, smussare, levigare. Stevens
spesso ha buffe risatine da bimbo cresciuto male, da uomo mai consumato o
perlomeno avvezzo, da maggiordomo che forse avrebbe anche potuto essere
migliore di quello che è ma sicuramente approccia l’esistere in una
fantasmagorica o fantomatica altra e parallela realtà. Dove, in fondo, tutto alla fine
dovrebbe piegarsi alla sua lungimiranza e perseveranza nonché cieca e sorda
devozione non a chi è, ma per chi lavora. Anche se poi, nel ripercorrere la sua
lunga e faticosa carriera, non v'è traccia di dubbio, egli ha pienamente assolto
i suoi compiti in ogni minimo particolare e con una quasi paranoica dovizia.
Compreso lasciar morire il padre da solo nel corso di un importante ricevimento
o il non aver mai provato l'ebbrezza e la libidinosità di un bacio, di un
trasporto, di un volo amoroso che se a volte pindarico è pur sempre un volo, uno staccare i piedi dalla terra e gridare all'universo sì io ci sono. In compenso
in segreto ed assoluta solitudine, disperde le sue poche ore libere nel leggere
romanzetti rosa, vergognandosene quasi, ma avendone voglia e voluttà,
l’evasione è una necessità, mr. Stevens.
Stevens è quello che
in terminologia para psicologica e non per forza freudiana, un castrato. Ma
nell'intenso, certo non celere ma nemmeno pigro romanzo in questione, è
l'assoluto personaggio capace di raccontare senza alcuna punta di malizia e con
un’innocenza quasi degna della compiacenza, fatti incredibili, ineffabili e
quasi surreali, il tutto condito da una logica servile e senza fantasia. Un
uomo dalla mente non distorta ma certo obliqua, che non aderisce pienamente
ai molteplici aspetti dell'esistenza. Bene, è un personaggio di quelli che
fanno scuola, narrativamente parlando, per come è abilmente condotto, ordito e
strutturato, rimane scolpito nella mente e nel cuore, lo si segue fin dove lui
andrà anche se la sua via è alquanto malformata, malinconica, vorremmo dire
crepuscolare.
Anche perché il giorno, miei cari, per Stevens ancora non è finito. Nonostante
sul suo viso si sia affacciata una languida, dispotica e quanto mai lugubre
sera, un buio che ci aspetta e quando ci inghiotte siamo finiti, più che
rapiti. Certo in occasione del suo (primo) viaggio fuori dalle sue mansioni
ufficiali e dalla sua tana famosa ma direi claustrofobica ed angusta per come
soavemente e con dolcezza (incredibile) Stevens ci racconta, apprendiamo delle
mirabile gesta dei suoi due padroni, Lord Darlington , discusso presunto filo
nazista inglese e tessitore di oscure e lorde trame in quella perfida Albione
che fu, prima che la seconda guerra mondiale terremotasse lui, le sue idee, i
suoi fiancheggiatori e l’intero mondo conosciuto, sconosciuto e da conoscere e
l’americano eterno e impomatato Mr. Farraday, uno stereotipo se volete, il
classico benestante di oltreoceano che considera l’Inghilterra e l’Europa alla
stessa stregua e alla stessa maniera, causa ignoranza archetipica di quel
popolo che popolo non è ma nacque sterminando gli indigeni.
Ma c’è un terzo elemento, quello che, anche nell’omonimo film davvero ben
fatto, accentra e condisce nonché conduce la trama. Stevens è in viaggio per
vedere se la fermamente e decisamente femminile governante Miss Kenton ci sia
la volontà di tornare alla dimora, per sopperire ad evidenti carenze di
personale. La bellissima storia fatta di silenzi, di domande senza risposta, di
risposte senza domanda e soliloqui in solitudine e di molteplici attimi che non
vengono colti e quindi fatti sfiorire, non solo è dannatamente ben costruita,
ma per certi tipi di rapporti anche maledettamente reale. Complimenti a chi scrive e poiché è un autore straniero, a chi traduce. Nella apparente lentezza, si
srotolano velocemente tutta una serie di fugaci, fredde o come calde sensazioni
che ciascuno poi riesce termicamente a ridurre a meri svolazzamenti di mezza o
inoltrata stagione, quando fuori piove e non succede nulla.
L’avventura di Stevens è un viaggio senza ritorno, come le nostre vite e questo
non è un dramma, ma una meravigliosa esemplificazione di come un personaggio
particolare vive, senza che per questo possiamo fare il tifo per lui ma nemmeno
biasimarlo. Ognuno è ciò che è e se miss Kenton non se ne accorge, vorrà dire
che è più accorta verso altro ed altrove oppure.
Kazuo
Ishiguro,l’autore, nato a Nagasaki, 8 novembre 1954, è uno scrittore di origine
giapponese ma narrativamente e anagraficamente pienamente britannico. Come
molti altri è uno scrittore che dà un importante apporto al romanzo inglese
contemporaneo fondendo tradizioni ed origini di estrazione lontana, ma in
maniera che la miscela risulti né esplosiva né particolarmente esotica, ma
pienamente inserita nel contesto in cui si dipana.
Nel corso degli ultimi
mesi è la terza volta che a distanza di anni, rivedo un film e poi mi dedico
alla lettura del romanzo da cui è tratto. in maniera sorprendente, quasi
sconvolgente per me. Molti son d'accordo che il film non rende un romanzo,
spesso e volentieri, eccezioni comprese. Nel mio caso, leggere dopo ha
comportato piaveoli e sorprendenti arricchimenti. Se il Kubrick che rende
decisamente meno ostico il testo di Arancia meccanica ed anzi rende la mia
lettura successiva meno difficoltosa, Le ore (The Hours) e questo (con regia di
Ivory, molto bello) sono piacevoli letture a seguito di un racconto filmico ben
fatto. Sto scoprendo che storie su pellicole di mio interesse, ben girate e
recitate, trovano nel romanzo un fecondo sequel, una deliziosa e lussureggiante
estasi estetica, al contrario di quel che spesso succede nel percorso inverso
più volte enunciato e conclamato. Come quasi tutti sanno, perlomeno quelli che
mi leggono, raramente se ci è piaciuto un romanzo troviamo soddisfazione nella
visione del successivo film, per un serie infinitesimale di piccoli ma
importanti e decisivi particolari. Invece io, sperimentando questo nuovo tipo
di percorso, mi trovo pienamente soddisfatto. Fortuna o caso, certo, ma
desideravo dirlo. Soprattutto a quelli a cui, quando leggono una storia o
vedono il finale, magari emozionandosi e avendo interesse, rimangono delusi.
Non c'è nessuna form di comunicazione che si giudica dal mero finale, che a
volte è una mera appendice da apporre con controvoglia. L'autore è uno di noi,
finisce, se finisce, come vuole finire. L'importante è nel mezzo.
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