13 giugno 2014

Quel che resta del giorno (Kazuo Ishiguro)


Questa notte è ancora nostra?
Facciamo di sì. Che poi notte vuol dire ed è tante cose.  
C’è una notte che si approssima e come tutte le notti porterà un tanto buio e forse uno o più spicchi di luna nelle vite degli umani. C’è questa eterna metafora dello scorrere del tempo che poi tante volte pare rimanere fermo, questo insito richiamo al “cogli l’attimo” di oraziana memoria, ma poi, di che attimo parliamo e come cogliere e poi, tutto questo, andatelo a dire a chi comincia a titubare, temere, quasi avere paura che non sempre dopo questa notte ci sarà comunque un alba come istrioneggiava il carismatico leader del gruppo rock dei Doors, pavoneggiandosi in un età e grazie all’aiuto di droghe che anche se effimere regalano sempre luci e poche ombre, tranne quando ti svegli e devi fare i conti con il cervello e il fegato malmessi.

Stevens è un maggiordomo tutto d'un pezzo. Indomito, coriaceo, fedele, fedelissimo. Talvolta granitico come una roccia primordiale che nessun vento secolare o di passaggio, nessuna infiltrazione di nessuna natura potrà mai scalfire, smussare, levigare. Stevens spesso ha buffe risatine da bimbo cresciuto male, da uomo mai consumato o perlomeno avvezzo, da maggiordomo che forse avrebbe anche potuto essere migliore di quello che è ma sicuramente approccia l’esistere in una fantasmagorica o fantomatica altra e parallela realtà. Dove, in fondo, tutto alla fine dovrebbe piegarsi alla sua lungimiranza e perseveranza nonché cieca e sorda devozione non a chi è, ma per chi lavora. Anche se poi, nel ripercorrere la sua lunga e faticosa carriera, non v'è traccia di dubbio, egli ha pienamente assolto i suoi compiti in ogni minimo particolare e con una quasi paranoica dovizia. Compreso lasciar morire il padre da solo nel corso di un importante ricevimento o il non aver mai provato l'ebbrezza e la libidinosità di un bacio, di un trasporto, di un volo amoroso che se a volte pindarico è pur sempre un volo, uno staccare i piedi dalla terra e gridare all'universo sì io ci sono. In compenso in segreto ed assoluta solitudine, disperde le sue poche ore libere nel leggere romanzetti rosa, vergognandosene quasi, ma avendone voglia e voluttà, l’evasione è una necessità, mr. Stevens.

Stevens è quello che in terminologia para psicologica e non per forza freudiana, un castrato. Ma nell'intenso, certo non celere ma nemmeno pigro romanzo in questione, è l'assoluto personaggio capace di raccontare senza alcuna punta di malizia e con un’innocenza quasi degna della compiacenza, fatti incredibili, ineffabili e quasi surreali, il tutto condito da una logica servile e senza fantasia. Un uomo dalla mente non distorta ma certo obliqua, che non aderisce pienamente ai molteplici aspetti dell'esistenza. Bene, è un personaggio di quelli che fanno scuola, narrativamente parlando, per come è abilmente condotto, ordito e strutturato, rimane scolpito nella mente e nel cuore, lo si segue fin dove lui andrà anche se la sua via è alquanto malformata, malinconica, vorremmo dire crepuscolare.

Anche perché il giorno, miei cari, per Stevens ancora non è finito. Nonostante sul suo viso si sia affacciata una languida, dispotica e quanto mai lugubre sera, un buio che ci aspetta e quando ci inghiotte siamo finiti, più che rapiti. Certo in occasione del suo (primo) viaggio fuori dalle sue mansioni ufficiali e dalla sua tana famosa ma direi claustrofobica ed angusta per come soavemente e con dolcezza (incredibile) Stevens ci racconta, apprendiamo delle mirabile gesta dei suoi due padroni, Lord Darlington , discusso presunto filo nazista inglese e tessitore di oscure e lorde trame in quella perfida Albione che fu, prima che la seconda guerra mondiale terremotasse lui, le sue idee, i suoi fiancheggiatori e l’intero mondo conosciuto, sconosciuto e da conoscere e l’americano eterno e impomatato Mr. Farraday, uno stereotipo se volete, il classico benestante di oltreoceano che considera l’Inghilterra e l’Europa alla stessa stregua e alla stessa maniera, causa ignoranza archetipica di quel popolo che popolo non è ma nacque sterminando gli indigeni.

Ma c’è un terzo elemento, quello che, anche nell’omonimo film davvero ben fatto, accentra e condisce nonché conduce la trama. Stevens è in viaggio per vedere se la fermamente e decisamente femminile governante Miss Kenton ci sia la volontà di tornare alla dimora, per sopperire ad evidenti carenze di personale. La bellissima storia fatta di silenzi, di domande senza risposta, di risposte senza domanda e soliloqui in solitudine e di molteplici attimi che non vengono colti e quindi fatti sfiorire, non solo è dannatamente ben costruita, ma per certi tipi di rapporti anche maledettamente reale. Complimenti a chi scrive e poiché è un autore straniero, a chi traduce. Nella apparente lentezza, si srotolano velocemente tutta una serie di fugaci, fredde o come calde sensazioni che ciascuno poi riesce termicamente a ridurre a meri svolazzamenti di mezza o inoltrata stagione, quando fuori piove e non succede nulla.

L’avventura di Stevens è un viaggio senza ritorno, come le nostre vite e questo non è un dramma, ma una meravigliosa esemplificazione di come un personaggio particolare vive, senza che per questo possiamo fare il tifo per lui ma nemmeno biasimarlo. Ognuno è ciò che è e se miss Kenton non se ne accorge, vorrà dire che è più accorta verso altro ed altrove oppure.
Kazuo Ishiguro,l’autore, nato a Nagasaki, 8 novembre 1954, è uno scrittore di origine giapponese ma narrativamente e anagraficamente pienamente britannico. Come molti altri è uno scrittore che dà un importante apporto al romanzo inglese contemporaneo fondendo tradizioni ed origini di estrazione lontana, ma in maniera che la miscela risulti né esplosiva né particolarmente esotica, ma pienamente inserita nel contesto in cui si dipana.
Nel corso degli ultimi mesi è la terza volta che a distanza di anni, rivedo un film e poi mi dedico alla lettura del romanzo da cui è tratto. in maniera sorprendente, quasi sconvolgente per me. Molti son d'accordo che il film non rende un romanzo, spesso e volentieri, eccezioni comprese. Nel mio caso, leggere dopo ha comportato piaveoli e sorprendenti arricchimenti. Se il Kubrick che rende decisamente meno ostico il testo di Arancia meccanica ed anzi rende la mia lettura successiva meno difficoltosa, Le ore (The Hours) e questo (con regia di Ivory, molto bello) sono piacevoli letture a seguito di un racconto filmico ben fatto. Sto scoprendo che storie su pellicole di mio interesse, ben girate e recitate, trovano nel romanzo un fecondo sequel, una deliziosa e lussureggiante estasi estetica, al contrario di quel che spesso succede nel percorso inverso più volte enunciato e conclamato. Come quasi tutti sanno, perlomeno quelli che mi leggono, raramente se ci è piaciuto un romanzo troviamo soddisfazione nella visione del successivo film, per un serie infinitesimale di piccoli ma importanti e decisivi particolari. Invece io, sperimentando questo nuovo tipo di percorso, mi trovo pienamente soddisfatto. Fortuna o caso, certo, ma desideravo dirlo. Soprattutto a quelli a cui, quando leggono una storia o vedono il finale, magari emozionandosi e avendo interesse, rimangono delusi. Non c'è nessuna form di comunicazione che si giudica dal mero finale, che a volte è una mera appendice da apporre con controvoglia. L'autore è uno di noi, finisce, se finisce, come vuole finire. L'importante è nel mezzo.

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