Ovviamente per Rose sarà una catarsi. Sarà uno sprofondare nel presente
avvinghiandosi al futuro ed eliminando come file abusivi nel computer vari
ricordi e premonizioni, quella volta che la guardò così, quell'altra che disse
questo invece che quello e via. Ci sono diversi modi per rimanere soli e
reagire ad un abbandono, ma il minimo comun denominatore è sempre quello di
dimenticare. Soprattutto se oltre all'oblio si riesce a vangare e rivangare
abbastanza letame da sotterrare qualsiasi possibilità di ritorno all'indietro.
Rose amava suo marito, lui non amava lei, tutto qui. Peccato che ci siano
voluti anni, per fare ciò che forse andava fatto prima. In realtà non era così,
ma l'amore è il più crudele dei sentimenti, proprio come Aprile il più crudele
dei mesi. Meno male che ha un'amica, che certe volte vomita solo rigurgiti di
banalità, ma almeno la ascolta e quando serve le dà una pacca sulla spalla. E
meno male che ci sono i figli. Solo sempre loro, nei migliori casi che
cementificano edifici pericolanti come quello che Ben e Rose hanno costruito o
creduto di. Perché in realtà il loro è stato solo un camminare assieme, talvolta
svogliati, mai un costruire. E quindi il buon Ben, come ha trovato un corpo su
cui sfogare le voglie, si è detto addio. Ma non potrà più tornare, chiaro che
no.
Amore che viene amore che vai cantava De André, la stabilità più instabile
dell’universo che comincia con una scintilla diventa fuoco e si sbriciola via
in un istante come se terremotato da forze sconosciute eppure sempre presenti.
Succede. Non dovrebbe, eppure.
Troppo femminista forse o poco maschilista, l’eterno egoismo dell’uomo,
l’innato vittimismo sognatore e pratico allo stesso tempo della donna. Una
faciloneria che purtroppo scade nella armonica serializzazione dei romanzi
“Harmony” dove anche il male è così perfetto che quasi quasi il lettore gli
vuole bene.
Non è sempre così e generalizzare in modo aperto e stentoreo una dissertazione
analitica e didascalica di un Giano bifronte, delle due facce di una stessa
medaglia ovviamente fa scadere e non di poco il il contenuto del romanzo.
Scivola via leggero e docile malgrado il dramma, scrittura flessibile e
sinuosa, ritratti psicologici indubbiamente chiari, ma tutte appare
maledettamente artificioso e schematico come nei film di cassetta hollywoodiani
e dunque la mancanza di problematica rende il tutto una elegante fiaba che non
può avere aspirazioni di perfezione. Nessuna storia si somiglia neanche
lontanamente, ma si ha bisogno di arrampicarsi e tenersi stretti a stereotipi
immortali per difendersi dall'attacco entropico della mutevolezza dei
caratteri, dei tempi, degli umori e degli ormoni.
Insomma bocciamo la Dunne, irlandese del 1954, molto quotata qua e là in forum,
per la evidente e quasi pretenziosa schematica moralità didascalica, un poco come un altra scrittrice dai toni rosa e dalle parvenze autoriali come la
Nemirovsky di “Jezabel”. Entrambe sicuramente dotate, ci mancherebbe, ma
talvolta la verità inconfutabile di certi assiomi meriterebbe di essere
romanzata invece che pedantemente essere semplicemente messa su carta.
“Siamo così
è difficile spiegare
certe giornate amare, lascia stare, tanto ci potrai trovare qui,
con le nostre notti bianche,
ma non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro si".
Così cantava la Mannoia, in una canzone davvero meritevole ma insomma, un po'
restrittiva. Il mondo femminile rimane davvero immenso e variegato, forse più
di quello maschile, ma abbandonarsi ai totem e tabù di junghiana memoria non fa
che aumentare il dividersi. Credo che non leggerò più nient'altro della Dunne,
per dire. esemplificare è necessario, banalizzare resta un'arte.
***
Pubblicata su ciao.it il 02.03.2013
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