16 dicembre 2015

Città della pianura (Cormac McCarthy)

L'amore, credo si sappia, muove anche le più nascoste forze ed anima anche i cervelli più intorpiditi e la chimica, la fisica e la logicità di tale portentosa forza a tutt'oggi non è stata ancora computerizzata né messa su carta in forma matematica. Nel senso che nessuno mette in dubbio che esista, ma razionalizzarla risulta compito improbo a scienziati e quant'altro. 
Ma questo romanzo temo ha l'amore come sinuosa esca, oppure adescamento, perché il risultato finale stavolta, in un eventuale riassunto, denota temi di altra portata e portamento. 



Siamo nel Far west. Un mondo, un mito, un orgoglio nazionale da quelle lande. Ed un punto di riferimento costante nella narrativa di Mc carthy, questo appartato narratore che probabilmente, attualmente, è uno dei migliori scrittori statunitensi, per la estrema, ruvida ed incisiva scaltrezza del suo stile e del suo lessico. 

Anche in Città della pianura, titolo conclusivo della "trilogia della frontiera", i temi cari al McCarthy sono i veri protagonisti. Sopra tutti il necrologio di un'poca ch tornerà più, come appunto l'epopea dei cow-boy e la natura, a volte fredda ed ostile ma che languida ti accoglie fra le sue muliebri e tentacolari braccia. E poi la contestuale mimica rituale e però dai toni quasi epici che accompagna la gestualità delle più semplici attività quotidiane, un mondo che morde e non demorde ma che ormai sta per essere digerito da quella che sarà poi la modernità e due, anzi tre personaggi che da soli reggono e dirigono, da gran signori, lo sviluppo della trama. Due sono vecchie conoscenze, essendo già apparsi e riapparsi nei libri precedenti della saga in questione: il testardo e velleitario John Grady Cole, che però non abbandonerebbe mai quello che dovrebbe essere abbandonato ed il più compunto Billy Parham, che a volte pare radicato al suo lavoro più di una quercia nel suo terreno e nella sua testarda semplicità rivela risvolti umani ed apprensioni umanamente comuni che insomma, lasciano il lettore convinto. 

Dopo la formazione e le iniziazioni compiute nei precedenti episodi dal titolo Cavalli selvaggi (splendido) e Oltre il confine, i due ragazzi nati vecchi lavorano in un ranch fra il Texas e il Messico. Non c'è eroismo, se questo vi aspettate, né gesta di altri tempi. La loro è una sorta di routine movimentata, descritta ineccepibilmente ma senza barocca malizia: difendere bestiame, addestrare cavalli, malinconiche serate ad ascoltare i vecchi intrise di saga epica ed amarcord, bevute copiose al bar in pieno stile, capatine assolutamente fisiche e "normale" al bordello cittadino. Ma proprio lì, John Grady, indomito cavaliere che nessun cavallo selvaggio può resistere da domatore, viene acceso come un fiammifero pronto ad accendersi. Una misteriosa e misterica appartata sedicenne, dal dire triste e dal fare puerile scatena quello che si può scatenare se quello che divampa è amore. Ma non sarà facile. Eduardo, il protettore, oltre ad atteggiarsi come filosofo (memorabili le sue pagine dedicate agli statunitensi, neanche un messicano avrebbe saputo parlare degli Usa come i messicani ancora oggi usano fare a questa maniera) innamorato o qualcosa di simile anche lui, cercherà la soluzione più probabile e cruenta: la guerra a John. Non si discute di un prezzo, di un territorio, di un potere, ma di un altro essere umano. Sulle connotazioni morali della vicenda, ovviamente lascio perdere, mi sembra chiaro che non vi sia nulla oltre che simile al turpe. Eppure lo scontro sarà intriso di ideali ed idee, di spasmi, orgasmi, del molto promesso e del poco che appare eventuale. Sullo sfondo un crepuscolare West, sempre più bramato e fuori epoca e deportato dalla Storia, destinato alla fagocitazione e all'oblio (tanto per dire il ranch di Grady sta per essere espropriato dallo Stato) e gli uomini che lo difendono e lo animano paiono sempre più dei predestinati alla sconfitta, perché il presunto progresso progredisce e procrea in altre direzioni che implicano lo smantellamento di uno status quo oramai improponibile, socialmente, economicamente, moralmente. La capacità dell'autore di rendere penetrante una storia per certi versi e per certi toni ordinaria è come sempre il dato di fatto che divide i narratori da chi racconta storie.



Mi piacerebbe conoscere Mccarthy, sentirlo parlare di suoi libri così come tempo fa mi è successo con un altro statunitense del Sud, Joe Lansdale. Perché in un paese grande come un continente oltre i fast food, le pacchianerie californiane e gli isterismi postmoderni newyorchesi c'è sempre da vedere e scoprire, credo. Ed è così che si apprende con vivo interesse delle viscerali ed archetipiche certezze del popolo di quel paese a lungo incontrastato padrone del mondo ed ora, a dire dei giornali e dei mass media in generale, sull'orlo del baratro. Presagi cupi e decadenti che peraltro in McCarthy affiorano nel bellissimo, struggente quanto violento Non è un paese per vecchi, recensito prima di questo testo benché successivo come pubblicazione, purtroppo a mio parere ingiustamente forse noto solo per la trasposizione cinematografica (leziosa e senza fronzoli, quasi senza nerbo) dai pindarici fratelli Coen e poi arricchita dall'Oscar. 

Che dire? God bless Usa, se possibile, quella parte almeno che nel suo stesso seno nutre ed ingorda uno spirito nazionale altro anche se funestato da avvenimenti oramai Storia. 

Nessun commento:

Posta un commento