08 gennaio 2016

Runaway dream. Born to run e la visione americana di Bruce Springsteen (Louis P. Masur)

Quando nel 1975 sta per uscire il disco Born to run, Bruce Springsteen, classe 1949, professione rocker e cantastorie, è considerato un musicista che il futuro può solo distruggere, professionalmente ed economicamente parlando. Ha tra le dita gli arpeggi giusti per suonare la sinfonia del successo non solo in patria, ma nel mondo. 


Perché infatti chi ascolta la radio, chi ama la musica, sta aspettando lui, Bruce, visto che fra l'altro è un anno che non riserva grandi soddisfazioni, dal punto di vista delle novità. In Italia, per dire, senza offesa, spadroneggiano Baglioni e I Cugini di Campagna, magari un Modugno d'annata oppure, quando va bene (o male) i Pooh. Sembra che uscire quell’anno sia una sorta di destino ineluttabile, per quel disco con quel titolo altisonante, roboante e mistificatore sui contenuti dei testi. Che qui viene descritto e analizzato nota per nota, senza remore, senza tremori o rancori. Un inno all'american dream che si sfalda, con suoni ricercati ma allo stesso tempo datati, con influenze di carattere pop (Roy Orbison su tutti) ma che deve essere rock. Tutti vogliono, tutti sanno, tutti insomma sono per Bruce. Non è uno di quei soldati che a comando esegue, anzi, però fa del tutto per accontentarli, ci mancherebbe, c'è un mondo che lo sta aspettando, che diamine. Suonare in studio fino all'alba, assonnare e sfruttare la composita band di bianchi e neri, e poi limare i testi: insomma il ragazzo, che allora ha appena 26 anni, ci crede, la gente è con lui. Bruce è la più grande promessa del mondo pop rock americano, vuoi per la fama acquisita nel corso delle sue leggendarie esibizioni dal vivo, vuoi perché gli Usa mentre Bob Dylan è appena diventato un icona della musica mondiale già cercano un erede, nella migliore tradizione del consumo usa e getta. Ma tanto poi la storia musicale dirà che fra Bruce e Bob non c'è nessuna comunanza, anzi, sono più le differenze, ma non facciamone una questione. Le pressioni sono immense, le aspettative sterminate. L'attesa spasmodica. E Bruce, a questo disco, ci dedicherà anima e corpo, nel senso più letterale e viscerale delle parole appena scritte, insomma, carpe diem ragazzi, ce la devo fare, volenti o nolenti, che sia quel che sia ma fatemelo suonare.
Un libro per chi ama ancora la sua musica, per chi è interessato agli aspetti meno noti di mettere su un disco, fosse anche il meno noto di tutti i tempi, è un inno al suonare e comporre ma anche alla grande, grandissima, superiore e necessaria necessità di chi un disco, qualunque disco che una major decide essere importante, lo produce, lo paga e per forza di cose da quel "prodotto" vuole profitti. In maniera asettica e disicantata, questo libro del professore di storia Luis P. Masur ci racconta tutti gli aneddoti ed i segreti, semmai ce ne fossero, di Born to run, sin dalla copertina in bianco e nero - sia per tonalità che per personaggi raffigurati.
E’ un tetso costruito su decine e decine di dichiarazioni ufficiali, memorie inedite, rumours che fecero la storia della laboriosa, spossante, nevrastenica costruzione e poi della diffusione di quello che, a detta di molti, fu il capolavoro springsteeniano. Non a detta dello scrivente, però, che segue il musicista da anni, decenni - ma questi sono dettagli. Indubbiamente il disco ha in sé rabbia, dolore, amore ed ardore, capacità e sonorità, ma insomma, Bruce è anche altro.
Ma già nel 1975 emergono le sue peculiarità di artista: una prolificità imbarazzante, un’esasperata ed accurata ricerca del sound o del verso giusto, un continuo rimuginio interiore su dove, come, perché suonare in questa o quella maniera, con questo o quella tonalità. E la sua personalità, tutto sommato chiusa, appartata, con un’adolescenza difficile nei rapporti familiari alle spalle, che solo quando imbraccia la sua chitarra esplode tutta la sua rabbia, il suo amore, la sua presente e incessante voglia di comunicare
Diciassette album in studio, dice Wikipedia. Sei album dal vivo. Una sfilza di raccolte. Centinaia anzi ormai migliaia di concerti tenuti in tutto il mondo, milioni di dischi venduti dall'esordio nel 1972 con Greetings form Asbury Park. Il rock non è numeri, ma per parlare di Bruce Springesteen bisogna snocciolare qualche cifra, considerando il fatto che ancora oggi nei suoi concerti i memorabili pezzi di Born to run vengono cantanti a squarciagola da adulti e adolescenti, in barba alle leggi dell'età, così come solo la musica sa fare, dire, raccontare. Ve lo dice uno che lo ha visto in concerto nel 2009. Allora, a quasi sessanta anni, sapeva tenere il palco per tre ore stancando i suoi stessi fans. Questa è musica, una certa musica, un elisir di lunga vita o insomma, quello che. Il rock, se volete, è anche questo.
Ho spesso parlato della mia passione per Bruce, nata in età adolescenziale proseguita negli anni, pur non avendo remora di riconoscere le sue debolezze creative ma rimanendo innamorato, ancora oggi, della sua energia positiva che sprigiona nei concerti dal vivo.
Non ho mai fatto riferimento al fatto che da sempre ho letto, metabolizzato e apprezzato le sue indubbie capacità narrative che emergono dai suoi testi. Spesso distanti dalle classiche tematiche rock e più vicini a brevi spaccati intimisti e minimalisti. Addirittura una sua canzone è stata fonte di ispirazione per un racconto pubblicato sul mio libro “Sconclusioni”. Ma di questo magari si parlerà un’altra volta anche perché in Born to run l’esuberanza giovanile, l’ansia da prestazione, la voglia di fuga da un mondo claustrofobico la fanno ancora disordinatamente da padrone e la scrittura springsteeniana che preferisco arriverà nei successivi dischi, più matura, equilibrata, malinconica, vera.
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