domenica 20 luglio 2014

Tre anni luce (Andrea Canobbio)


Le mille facce dell'amore. Oppure è sempre la solita solfa e dunque prendiamone atto?
Gli spazi siderali dove si agita quella che noi vorremmo vita ed invece è solo esistere sono immensi eppure certe volte hanno interstizi così minimi, minimali, dove si infilano piccole casualità che decidono diversi futuri. Quanto tempo sprechiamo, rifiutiamo, lasciamo avariare e quanto invece lo divoriamo voracemente non lasciando nemmeno le briciole. Un fiero e lauto pasto, che spesso non sfama mai.
Amore ma non solo. Perché amare vuol dire tante cose, anche non esserne capaci o troppo.



Claudio Viberti era il classico lupo solitario. Si era spalmato addosso chili di solitudine neanche troppo pensierosa e riusciva lo stesso a sopravvivere, persino facendo ancora vista alla madre con i sui quaranta anni suonati solo per starla a sentir dire le cose e a veder sfiorire la sua memoria oramai compromessa dall'età. Poi c'è stato quello che si chiama colpo di fulmine, con Cecilia. Lei bella , davvero, di quelle bellezze che devi almeno per forza guardare, irresistibile, triste, pensierosa.
Tra loro è stato proprio casuale. Un incontro in ospedale, dove Viberti fa l'internista, con una madre in piena crisi coniugale e con un figlio che non vuole mangiare. Verranno mesi dove un'amicizia non rende due persone amiche, ma amanti. Due solitudini rumorose, le loro, di quelle superbe, inattaccabili, convinte eppure così fragili. Che basta una scintilla per sciogliere tutto quel ghiaccio. E nonostante l'età, nessuno ha fretta. Servirà un anno per dichiararsi, altri mesi per rendersi conto che magari, nonostante il passato fatto di ferite, lividi, incontri, scontri, si può pure stare assieme. Ma siamo nel mondo reale, non nelle favole, a lieto e conciliabile fine. perché poi irrompe Silvia. Ovvero la sorella di Cecilia, un antitesi se non fisicamente almeno caratterialmente. Non potrà essere che triangolo, per quella strana e inattaccabile chimica dei sentimenti, anche se le persone sono avvezze, “scafate”, per così dire quadrate, ma non tutto nella vita può essere un cerchio perfetto
E nascerà un figlio che ci racconta lucidamente ed analiticamente la storia, immaginando ciò che non poteva aver vissuto essendo ancora nulla, neanche un progetto. ed infatti ci dice testualmente “Non c'è presente più interessante di quel lontano passato, che non ho vissuto, di cui non so quasi nulla, che continuo ad immaginare inventando i ricordi degli altri”.
Gran bel romanzo questo di Canobbio, giunto oramai alla piena maturità artistica, all'ottavo libro. Forse qualcuno si ricorderà che questo torinese del 1962 ha mosso i primi passi con forse l'ultimo letterato di ampio respiro italiano, ovvero Tondelli. Comparve infatti nella antologia “Under 25” tondelliana, un progetto vivace, ancora attuale e solido che però andò a finire causa la progressiva malattia e successiva morte del suo brillante ideatore. Un stile compatto, una struttura narrativa davvero ben congeniata, che alterna asincronie temporali senza disorientare lettori e sequenza-conseguenza narrativa, dove vengono scandagliati passati ricchi di ostacoli, rimozioni, contrasti e anche felici convenienze. Una galleria di personaggi ben tratteggiati, senza indugio o pleonasmi inutili, superati, sorpassati. Ed allora eccoci a vivere le piccole e minimaliste ossessioni del “vecchio” Mercuri, amico della madre di Viberti, l'incredibile rottura senza disastri dello stesso Claudio con Giulia, la ex moglie, Antonio, l'amico un poco misantropo, un poco guascone, un poco che però è tanto, alla fine nella sua vita. Oppure la analitica, vivisezionata e sapientemente disseminata storia di Cecilia con Luca, suo ex marito, amori che diventano affetti e che poi scivolano verso la cortese indifferenza, se non qualche picco di ostilità gratuita. E la storia familiare della donna, con un padre che preferiva la spigliata,acida,corrosiva sorella che tanta parte avrà nel compiere destini destinare situazioni.
La bravura di Canobbio è descrivere, come facevano dei mostri sacri ottocenteschi, mai giudicare. E lo fa con una scrittura agile ma non esile, uno stile non morboso ma denso. Ed il titolo emblematico distingue distanze, ma anche la necessità e la veridicità di improbabili universi che talvolta possiamo riuscire ad esplorare, pur soffrendo, pur alla fine ferendoci e ferendo, anche senza volerlo.



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