16 luglio 2014

Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi (Alessandro Piperno)


Dio li fa e poi li accoppa? può darsi.
Leo Pontecorvo è sfortunato, forse. L' intero suo mondo, così teneramente edificato con superiore pazienza, si distrugge per implosione durante la breve durata di un servizio giornalistico al telegiornale serale. Una sorta di “Disastro praecocs”. Già Leo non passava un gran periodo. Capita. Una serie di impicci appiccicaticci e morbosi che lo stavano estraendo chirurgicamente dalle sua vita dorata per fargli sentire un poco i morsi della difficoltà incipiente. Ma quando lo speaker annuncia davanti alla sua famiglia dedita al rito della cena serale che è sotto inchiesta per aver concupito una dodicenne, peraltro ragazza del suo secondo figlio, nulla può fermare la disintegrazione. 


Alla notizia ferale il resto dell'umanità rimane per così dire impassibile ed allibita. La televisione impone e dispone, non è ammessa replica. Leo non ha colpe, ma semplicemente paura e non trova di meglio che fuggire, come sempre, di fronte alla inesorabile praticità e prosasticità delle cose umane. Lui fa il padre ed il professore, non l'accusato. Meglio sparire in cantina, poi si vedrà. Un esilio di matrice letteraria. Chissà chi di voi conosce il terribile destino di Gregor Samsa e la sua natura scarafaggica.
La vita è un oste capriccioso, cinico, crudele. Sa che padroneggia l'unica osteria dove tu puoi saziare la tua esistenza e detta le proprie leggi senza legge alcuna, a seconda di come gli viene. A volte ti presenta il conto con calma, quando oramai hai mangiato bene, hai la pancia piena e stai per fumare un sigaro. Altre volte non inizia nemmeno a leggerti il menù, ti guarda in faccia e ti dice quanto paghi, senza nemmeno iniziare a mangiare. Ogni pasto si pasteggia a sé. Anche se talvolta questo benedetto mangiare è difficile digerirlo, come certi cibi, ma hai l'impressione comunque di un alimento cucinato in una certa maniera che valeva la pena di assaggiare,a prescindere, anche se gli ingredienti rimangono sconosciuti. Non è il caso di Leo. Anche se Pontecorvo aveva mangiato e sostanzialmente bene. Forse qualcosa era troppo sciapo, altro un poco piccante, ma non si può avere tutto.

         Di famiglia ebrea romana, molto più che benestante, a suo tempo capace di mettersi al sicuro in Svizzera assai prima che i nazisti durante la seconda guerra mondiale diano sfogo ai loro folli istinti. Poi brillante percorso scolastico, fino ad arrivare ed essere un oncologo di fama internazionale, professore universitario precoce, di bell'aspetto, con una famiglia da copertina da reclame Brilla. Percorso netto, bene, bravo bis. Anche se agognato e corteggiato, poi alla fine si era sposato con un'ebrea modesta e tignosa, sua studente, di classe sociale nettamente inferiore anche se non indigente ma self-made, la incorruttibile ed intransigente Rachel. Non l'ha mai tradita, ci mancherebbe. Ma ne ha dileggiato per anni i costumi eccessivamente sobri, le manie pseudo religiose, le impuntature spuntate di chi è stato allevato a pane e moralità.
Ha la sua villa fuori appena Roma, all'Olgiata, solare per le sue vetrate ma nello stesso tempo ripiegata, appartata ed accogliente come un grembo materno. Perché il professor Leo in fin dei conti è stato plasmato, a dovere o meno, da una mamma non violenta ma aggressivamente invadente, che non ha mai lesinato di agire per lui in nome del bene, al fine di preservarlo dal male e per farlo diventare ciò a cui lui, secondo quell'ancestrale e non sempre infallibile dettame materno, era predestinato. Ovvero essere un tranquillo, educato, inarrestabile ma non superbo uomo di successo. E pazienza se si è sposato Rachel che non è la nuora dei sogni. Neanche i figli più amati, curati, accuditi ed unici, possono essere del tutto come mamma impone e dispone.
Tutto insomma sembrava andare dove dovesse andare, seppure tra qualche allarme, specie del primo figlio Filippo, dislessico e asociale, e poi qualche alterco con Rachel. Che bisogno c'era di andare ad impelagarsi in uno stupido, inconcludente gioco di ruolo, peraltro materialmente asessuato, con quella “burina” (“troietta”) dai modi isolati e psicotici, una complessata di appena dodici anni. Già. La solita storia. La vita è come un oste di una trattoria obbligatoria, mangiare o essere digiuni stop. Pontecorvo ha voluto assaggiare un antipasto o un dessert indigesto, alla faccia degli stomaci delicati degli altri.Ma siamo in epoca di cibi preconfenzionati e flebili. Una foto, una notizia ti segnano la vita.Ed ora i conati di vomito non bastano a farlo uscire da un incubo. Si chiude nella cantina, sotterrato più che dalle mura dalla vergogna, se ne uscirà, lo farà male, malissimo. La gente lo ha già condannato, fottendosene della verità, degli alibi di un inetto a combattere, di un vincente da sempre che però non ha combattuto una battaglia, fino adesso il nemico si è sempre dileguato. E così forse rimarrà chiuso lì dentro, per sempre, come se fosse una tomba quel box interrato della sua villa confortevole. D'altronde prima dello scandalo, stava già passando guai giudiziari, era al centro di una faccenda poco edificante di tangenti e fatture false, lui che di amministrazione si disinteressava eppure firmava fogli, bonifici, assegni,  in pieni anni Ottanta. Peraltro essendo craxiano rampante quando Craxi era all'apice del successo e dell'odio. Chissà se il suo vecchio amico Herrera, uno che brutto come la morte ora fa i soldi come avvocato, un suo amico adolescente, anzi, l'unico amico che poi l'ha mollato al colmo dell'invidia, possa aiutarlo a districarsi da questa matassa per certi versi esteriore, per molti altri al centro dell'anima di Pontecorvo.

 Secondo romanzo del professore e saggista Piperno, classe 1972, narratore che considero indubbiamente dotato ma che secondo me deve ancora trovare una completa maturazione stilistico-formale. Comunque già il suo precedente “Con le peggiori intenzioni”, seppure denotava debiti con il classico ottocentesco (e questo di per sé non è assolutamente un male) e qualche sproporzione, era un romanzo sopra la media di piatto cerebrale e contenutistico della narrativa italiana. Anche qui conferma alcune sue prerogative. Marchio indelebile l'ebraismo seppure non straripante, stile fronzoloso, talvolta arzigogolato ma pregno, evidenti reminescenze letterarie di classici moderni (stavolta mi pare Kafka al centro dell'attenzione, è citato direttamente o indirettamente a causa dell'esilio di Pontecorvo nel sottoscala e la sentenza di condanna è prima della compiuta indagine, quando le apparenze evidenti diventano prepoderanti rispetto all'essere, riecheggiando K. de Il processo) e una certa noncuranza un po' snob del facile, del leggibile e del mainstream. Va evidenziato che grande parte dell'ultima sezione in cui è suddiviso il romanzo appare melliflua e semplicemente propedeutica al sequel che uscirà poi in libreria. Tanto valeva fare un volume unico, ma su scelte autoriali o forse meglio editoriali,apparentemente incomprensibili ed irritanti, la discussione si fa troppo lunga.

 Pubblicata su Ciao.it il 06.05.2012

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