Già. Il Risorgimento. Ovvero quella che dovrebbe essere la radice comune da cui è nata la nostra malmessa e malmenata nazione. Ma dopo 150 anni ci si accorge che non è così. Colpa del momento, colpa di spinte autonomiste di alcune regioni, colpa di tutto e forse di poco. Quindi non si tratta di revisionismo fine a sé stesso, indirizzato politicamente e nutrito magari da un'ideologia malsana. Si tratta di prendere atto che l'epoca risorgimentale, turbolenta ed eroica anche per il sacrificio di diversi martiri, non è stata per così dire una redenzione voluta da un intero popolo, ma un'immensa e talvolta soverchiante, travolgente spinta voluta ed organizzata da pochi e che in molti hanno subito, o comunque non accettato. E quel legittimo, strisciante sospetto che ci sia stato a capo di tutto una "lunga mano", che aveva deciso per tutti in base alle proprie più o meno lungimiranti convenienze, un disegno strategico di pochi a beneficio personale e non collettivo.
Anno domine 1844. L'Italia è pervasa da fremiti e scosse, divisa in più Stati, ma a quanto pare nelle diverse maggioranze regionali c'è voglia di unificazione.
Il terrore dei vari regnanti al potere malvisto ha un nome e cognome: Giuseppe Mazzini. Infaticabile tessitore di
trame rivoluzionarie, logorroico teorico della rivolta, assai carente di pratica e di praticità, ma sicuramente il maestro e capo riconosciuto di qualsiasi moto che abbia la pur minima velleità liberatrice.
Quando il giovane veneziano Lorenzo viene arrestato in Calabria dai militari borbonici dopo l'ennesima insurrezione fallita, il prezzo da pagare per avere salva la vita è solo uno: diventare una spia ed inserirsi nel circolo mazziniano assai attivo a Londra, dove si è rifugiato anche il leader maximo.
Prima della cattura Lorenzo ha conosciuto e salvato una giovane popolana, detta la Striga, apparentemente muta e misteriosa. Se la ritroverà a Londra, in balia di un lurido e bieco sfruttatore lurido di bambini, il Lussardi che la vende al lussurioso, pervertito e decadente lord Chatam. E tra spiate, ferimenti, grandi aspirazioni, memorabili litigate, comincerà una sarabanda di amori ed avventure. Lorenzo si innamorerà alla concupiscente e ribelle Lady Violet, anticonformista e battagliera dalla testa ai piedi, mentre la Striga, ora presso il pittore Rossetti, darà mostra di grandi capacità matematiche. Viene il '48, si dice che la rivoluzione cambierà il mondo e anche l'Italia ma anche stavolta alla fine i regnanti l'avranno vinta. Lorenzo addirittura salva Mazzini, nonostante la prodiga attività di spionaggio, da un rapimento da parte dell'attivo contro-spionaggio piemontese a Milano e poi sarà a Roma per la Repubblica romana, la più vitalistica e senza futuro delle Repubbliche nate fino ad allora. Prima che anche lì il Papa Re torna e mette in fuga i liberali utopici ed utopistici. Lorenzo conosce Mario Tozzi che si metterà con Lady Violet, il sardo Terra di nessuno redimerà la Striga mentre Lorenzo trova pace dei sensi con la ragazza ebrea Esther. Il tutto di nuovo a Londra, perché i moti del 48 sono finiti in un inutile bagno di sangue che annegato per l'ennesima volta gli ideali mazziniani e la loro scarsa concretezza. Ovviamente Mazzini è sempre sano e salvo, pensa, parla e scrive mentre altrove si muore.
Non finisce qui, ma sarebbe quantomeno torrenziale dilungarsi. Si proseguirà così comunque sino addirittura al 1872, con la comparsa della mafia a Londra, interessata ad inserirsi nei moti liberali, avendone capito il naturale sbocco. La mafia non contrasta mai, semmai
asseconda e si infiltra e così sarà anche in questo caso. Con l'unità d'Italia che alfine sarà compiuta nel 1870 con la caduta di Roma e del potere temporale dei Papi che durava da secoli verranno a galla diverse magagne, dove tutti hanno tradito tutto ed infine più che Risorgimento toccherà chiamarlo Tradimento.
I piemontesi hanno conquistato l'Italia ed invece di diversi padroni, ce ne sarà solo uno, che nel tempo avrà un nome e cognome: parlamento.
Brutto romanzo, decisamente. A parte l'improbabilità storica e psicologica di certi personaggi, risulta fuorviante ed alla fine fastidioso l'utilizzo eccessivo di uno stile cinematografico, fatto solo di dialoghi rapidi e secchi, sequenze di scena e andamento schizofrenico che poco hanno di narrativo. Sembra tirato via, scomposto ecco. L'intera operazione appare non armonica, frettolosa, eccessivamente dilatata e torrenziale. Sono lontani per Di Cataldo i fasti della Roma malavitosa di "Romanzo criminale". In quell'oramai lontano romanzo l'autore convogliava questa capacità da sceneggiatore in una architettura coerente, trascinante e solida. Non qui, dove tutto è mellifluo, superfluo, aleatorio.
Peraltro questo "I traditori" ha di fatto costituito la bozza per l'autore per partecipare alla stesura della sceneggiatura del film "Noi credevamo", decisamente più riuscito come narrazione, anche se lì le interpretazioni e la regia non hanno riscontrato il mio pieno gradimento, ma se ne parlerà magari un'altra volta.
Insomma, opera bocciata.
Pazienza. rimane la sintomatica ed inquietante riflessione sul significato storico sociale e politico dell'età risorgimentale.
Certo c'è modo e modo per costruire un testo che magari ribalti o metta in dubbio conoscenze acquisite, certezze tradizionali, interpretazioni storiche.
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Pubblicata su www.ciao.it il 13/01/2013
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