24 settembre 2013

I fiori blu (Raymond Queneau)

Situazioni surreali. Ironia intelligente e corrosiva. Trovate spiazzanti.
Il male di vivere senza sogni secondo Raymond Queneau, l'eclettico scrittore francese che dagli anni Sessanta in poi ha regalato al pubblico brillanti ed originali narrazioni dove la sua abilità innata nel giocare semanticamente e morfologicamente con le parole lo ha ha fatto diventare un'insuperabile maestro.
Oltre questo "I fiori blu", uscito nel 1965 e tradotto in Italia da Italo Calvino, con cui nacque una solida stima reciproca, è forse l'opera meno giocos ae più amara rispetto ad altre produzione come Zazié nel metro e Icaro involato. Qui c'è sempre giocosità, ma il gioco a volte si fa duro, anche senza mai perdere quella gioiosa e lineare leggerezza nell'affrontare temi sociali.

Chissà se per davvero, all'ultima pagina, il lettore carpisce il segreto per poter coltivare fiori anomali. Anche se non abbiamo letto un manuale di giardinaggio, ma una deliziosa avventura nella jungla della fantasia. Dove la realtà ne esce con le ossa rotte, nei suoi ripetitivi, deterministici meccanismi, arrugginiti dal tempo e dalla consuetudine.

La Storia viene decostruita e fatta a pezzi, il meccanismo logico temporale a cui ci aggrappiamo per avere un razionale senso dello svolgersi del tempo viene letteralmente scomposto ed irriso, perché questa operazione non è nichilista né annientatrice, mira semplicemente a gettare i semi capaci di far nascere questi benedetti fiori blu davanti ai nostri occhi. Il tutto impreziosito (e non appesantito) da un ritmo brioso ed un linguaggio scorrevole seppur molto ricercato, non complesso, ma 
variegato e frizzante, insomma né banale né passivo ma intelligente. 
Ed un contenuto apparentemente spensierato ma appassionante, ludico ma non superficiale.
Libro che ci regala sogni, malinconie, piccole verità e grandi illusioni.


Sogno o realtà, consistenza o fragilità del reale, invasione della fantasia, scarsa e scarna difesa del razionale.

L'ordito della trama scaturisce dalla bipartizione narrativa fra le gesta tra il magico e l'assurdo del Duca D'auge, che ricorda i nobili personaggi stonati e riuscitissimi che animano la trilogia fantastica di Italo Calvino dei "Nostri antenati" (Il Barone rampante- Il Visconte dimezzato- Il cavaliere inesistente) e il burbero e solitario e contemporaneo Cidrolin, che si alternano tra le pagine e non sapremo mai chi è che sogna l'altro o semplicemente sono due personaggi che vivono epoche diverse e problemi similari, personaggi che tutto sommato rappresentano il rifiuto generoso e sconsiderato dalle varie prigioni che offre il carcere della realtà quotidiana, acerba ed inesorabile quanto tediosa ed invincibile.
L'avvio del romanzo è nella mattina del 25 settembre del 1264, quando il buon il Duca d'Auge sale sul torrione del suo castello ed osserva basito e forse divertito una disordinata massa di Unni, Galli, Romani ed altri accampati a casaccio: la Storia inizia a vacillare, a confondersi e a disfarsi da sola. Intristito dalla miseranda vista esclama abulicamente «Qui il fango è fatto dei nostri fiori ...dei nostri fiori blu, lo so». E parte quindi verso Parigi, assieme i suoi due cavalli parlanti Sten e Stef ed al paggio Mouscaillot. Giunto alla capitale, si rifiuta di partecipare alla nuova crociata e da lì sarà un avvincente intreccio di avventure disparate, condotte dal duca con piglio che non può far venire in mente il mitico Don Chisciotte ed il suo fedele servo.
Tutto ciò però è inframezzato dalle frequenti digressioni oniriche di Cidrolin, che vive in giorni contemporanei al romanzo, fra precoci hippie ed impieghi statali, su un barcone ancorato su un fiume e chiamato non a caso Arca. Sta assieme alla figlia Lamelia, che sostituisce, dopo il suo matrimonio, con Lalice. 

Cidrolin impersonifica l'ozio, l'indolenza e l'insofferenza più assoluta ai tempi moderni, passa il tempo a bere essenza di finocchio e a cancellare la scritta «assassino» che qualcuno scrive ostinatamente sul cancello vicino al suo barcone, scritta a volerlo offendere, visto che lui è stato incolpevolmente diciotto mesi in carcere.

La trama riserverà sorprese grottesche, surreali a volte semplicemente comiche e riserverà colpi di scena. Pensate cosa potrebbe succedere se i due che si sognano senza capire di essere sognati si incontrassero. Quel piccolo brandello di reale e di Storia ancora in vita verrà letalmente ferito a morte dall'operato dei due squinternati e invincibili eroi, entrambi ossessionati da loro stessi ed infastiditi da ironici improbabili ma drammatici avvenimenti che vanno a circondarli ed a sfidarli.Testo non astruso ma che esula dal mero dipanarsi di una trama lineare, con passaggi sublimi, poetici, patetici, a mio parere è uno dei più belli dell'autore, il genialoide francese Raymond Queneau (Le Havre 1903 - Parigi 1976), uno degli esponenti di punta della sedicente letteratura sperimentale degli anni sessanta, capace sempre di sorprendere con cura il lettore e di manipolare la lingua senza per questo inerpicarsi in giochi fini a se stessi, quanto ardui tanto noiosi.
Questa sua incredibile capacità nel comporre e decomporre la struttura linguistica e del reale che dalla lingua è organizzato e conosciuto fa sì che l'ideale sarebbe leggerlo in lingua originale, per chi può. Anche se in questa traduzione italiana un plauso convinto va fatto all'illustre traduttore, Italo Calvino, che comunque ebbe non poche difficoltà nel porre in essere la traduzione, come attesta lo postfazione scritta di suo pugno e volta ad illustrare alcune soluzioni intraprese.
Uscì nel 1965, in Francia, in un epoca in cui la letteratura pensava ancora di poter cambiare/indirizzare/alleviare il mondo.  Un mondo molto distante dal nostro, dove si aveva ancora il coraggio di osare e si osava poter almeno pensare a cambiare se non il mondo, almeno la percezione della realtà, grazie all'opera infaticabile di questi piccoli inimitabili menestrelli dotati di capacità linguistiche non comuni che dovremmo chiamare né santi né eroi ma semplicemente Scrittori
E mi rimarrà nel cuore sempre la frase ricorrente di questi due improbabili rivoluzionari, che vanno esclamando spesso anche a sproposito: «E anche questa l'ho in quel posto».

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