03 dicembre 2013

Trilogia di New York (Paul Auster)



Siamo uno, nessuno o centomila?



Scambi di identità, riflessi e riflessioni come nella migliore tradizione di inizio novecento. Tanti per esempio conoscono almeno per sentito dire almeno il “Fu Mattia Pascal” di Pirandello, ma altri e svariati sono i romanzi dove il protagonista si pensa in un modo ed invece gli altri lo pensano in un altro, dove egli si crede uno ed invece non è solo quello ma anche nessuno e centomila.


“Trilogia di New York” è un testo composto da tre romanzi brevi o se preferite racconti lunghi, inutile dissertare sulla fatua inutilità di entrambe le definizioni. Tre incipit fulminanti, due conclusioni aperte o quasi, che lasciano uno spiraglio come la luce che si insinua in una stanza buia da una porta socchiusa. Ed un terzo racconto che rimette tutto in gioco e lascia decidere se chiudere la partita o aprirne un’altra, come quelle serate in cui si gioca a poker con gli amici e al di là di chi vince o chi perde non si sa decidere se andarsene a letto oppure continuare la partita, così, tanto per fare

Tre incipit dicevo.
Squilla il telefono nella notte ed il controverso e mediocre scrittore Quinn s’improvvisa detective, vittima di un’attrazione fatale non fisica e pudicamente corporea, ma meramente cerebrale. 
Indagherà su un caso e si scoprirà indagato, fino a perdere totalmente il confine fra due mondi apparentemente distanti ed inconciliabili. E questo è “Città di vetro”.
Analogamente in “Fantasmi” si legge che all’inizio c’è Blue, poi White ed infine Black. Tre colori per tre personaggi per tre caratteri apparentemente distinti nitidi e lividi, che finiranno per confondersi. Uno incarica un altro di spiare il terzo. Ma alla fine tra spia e spiato sarà un gioco delle tre carte, punti di vista scambievoli che a volte si incrociano, si sovrappongono o si scambiano la visuale. Come se il rosso si scoprisse nero e il viola diventasse azzurro. Alla fine un quadro colorato, non un pastrocchio, perché c’è sempre un pittore (ovvero lo scrittore) che riesce a tinteggiare anche la miscela dando una compostezza di tonalità che non annega nell’impossibile a vedere.
Titubanti ed ancora forse un poco confusi arriviamo a “La stanza chiusa”, dove il protagonista si impossessa implacabilmente, nascondendolo anche a se stesso, della fama e della famiglia di un suo amico scrittore scomparso prendendone il posto non solo in senso morale, ma anche anagrafico, artistico e reddituale e come magicamente, riga dopo riga, come fossimo davanti ad un prestigiatore, tornano nomi e situazioni dei due precedenti racconti. Come dice il narratore, quasi a spiegarsi l’arcano a se stesso più che al lettore, volutamente ignorato ma nello stesso tempo accompagnato fino all’ultima pagina, tre storie che sono una sola, un diverso stadio di essere consapevole di raccontarla, dove le parole fuoriuscite hanno costretto l’autore ad accettarle, addossarsele e andare dove lo portavano, fino alla fine del mondo e anche oltre.

Alla fine tutti fanno i conti con la propria vita quando invece pensavano o si accingevano a pensare di avere a che fare solo con la vita degli altri. Il tutto in un mondo a se stante, dove il fuori appare in maniera consistente come esterno, quello che conta è solo la propria dimensione psicologica. 


Dove c’è chi cerca e chi è cercato. Ma poi succede che chi è inseguito diventa inseguitore, un po’ come nella vita , si cerca ma si è cercati, si trova ma in realtà si è trovati. Un gioco di spicchi, spacchi, specchi. Specchi che riflettono esistenze solitarie spesso convulsamente attorcigliate su annosi e verbosi dilemmi esistenziali. Spacchi di vite a volte lacerate, a volte imponderabili eppure apparentemente perse e terse nella loro ponderatezza. Ed infine spicchi. Spicchi di avventure che partono come vertiginose e poi invece si smorzano in una sorta di bradipismo retrattile, insomma, per dirla alla romana, si “incartano”, anche se il finale è comunque a sorpresa, non proprio un pacco regalo o se preferite un uvo pasquale, ma una specie di messaggio da caccia la tesoro. E si ci mettete pure che lo scenario è una New York pallida e quasi da paesaggio lunare, priva di folla e rumore, quasi fatta solo di spazi e geometrie, silenzi ed ombre, non la recalcitrante ribollente magmatica e caotica megalopoli che dalla nascita è stata eletta quale capitale dell’american dream universale… spicchi certo, ma di una grande mela (come New York è appellata comunemente) fatta a pezzi e triturata senza pietà fino a svuotarla della polpa e darne un succo più amaro che dolce. Tutto in nome della scrittura, dei poteri tentacolari talvolta, catartici in altre, comunque stringenti, risolutivi.
Un Auster dunque completamente dal già recensito Sunset park .

Paul Auster nato nel New Jersey nel 1947 è uno dei più interessanti narratori statunitensi di un certo calibro degli ultimi anni. Nato con la cosiddetta corrente minimalista (dedita alla rappresentazione della minima quotidianità che poi alla fine è nella sua abitudinaria consuetudine quella che veramente sconvolge ed avvolge le nostre esistenze) tra le altre cose ha collaborato alla sceneggiatura di un piccolo grande capolavoro del cinema, ovvero “Smoke”, grande film con Keitel e Hurt su tutti, delizioso nei dialoghi e nella regia, consigliato anche se questo libro dovesse in qualche modo risultarvi ostico.
La brillante inventiva di questo autore gli permette di confezionare storie che hanno un telaio spesso di giallo classico ma con ricami evidenti che spaziano dai “patterns” tradizionali del fantastico ottocentesco (Poe su tutti) fino ad arrivare a ghirigori di surrealismo novecentesco duro e puro, quasi kafkiano se volete. Un classico e composito vestiario postmoderno, dotato di chiarezza espositiva e quel turbinoso e vertiginoso sprofondo che solo certa letteratura sa offrire.

Pubblicata sul sito  Ciao.it il 08/04/2009

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