28 gennaio 2015

Vite di uomini non illustri (Giuseppe Pontiggia)




Non so se qualcuno ricorda una canzone di Francesco De Gregori del 1985, che recitava "la storia siamo noi". Bene. Quel pezzo, sebbene probabilmente scritto per altri intenti, mi fa da sottofondo ideale a questo testo di Giuseppe Pontiggia, narratore lombardo recentemente scomparso, scrittore di notevoli doti e di discreto successo e probabilmente estraneo alle mafie intellettuali ed editoriali. 

Il testo in questione è composto da diciotto capitoli, brevi come un racconto ma lunghi come diciotto esistenze, sorta di schede anagrafiche ma non solo, delimitate da nascita e morte del personaggio principale, rigorosamente con luogo, data e modalità. Storie comuni, brandelli di vita, istanti cruciali.




E appunto appaiono come dossier di una sorta di agente segreto, che scagliona e viviseziona i momenti comunque decisivi di diciotto fra uomini e donne che attraversano il secolo ultimo scorso dagli albori al Duemila. 
Operazione narrativa certo di connotazione sperimentale dove però non si persegue lo stupefacente onirico, il fantastico o l'espediente formale di natura artificial-pirotecnica. 
Anzi. 
Nel solco di una lontana e feconda tradizione che affonda le sue radici in antenati classici come Plutarco e Svetonio dediti alla biografia, qui si storicizza la vita al fine di rendere immortale un contesto sociologico. Stavolta i personaggi sono dei "signor

nessuno", anche se bene o male tutti alla fine di estrazione alto borghese, difficilmente vittime degli stenti anche se spesso coinvolti in disavventure personali causate da terremoti socio-economici di ben più vasta portata . 

Al di là della effettiva non notorietà dei Vitali Antonio, Bertelli Claudia, Prezzemolo Giovanna, Tornaghi Luigi, personaggi che animano e vivificano queste pagine, essi assieme agli altri assumono una loro autonomia e dignità personale e nello stesso tempo sono parti di un evidente tutto, il raccontare la vita attraverso i momenti che la decidono e che noi non decidiamo, benché tutti siamo animati da fervori e tremori, da stupori e livori, rancori ed amori. 
E questa idea di parte di tutto viene in un certo senso rafforzata dal pezzo iniziale e da quello finale, che presentano analogie nello svolgimento e dunque suggeriscono circolarità. 

Per il resto, dicevamo, evidenziamo la costante presenza mai invadente di insoddisfazione, felicità, appagamento interiore ed esteriore, una sorta di storia d'Italia attraverso l'uomo comune. 
Dialoghi scarni, incisivi, colpi di frusta e cambi di direzione, vere e proprie scosse fulminanti per punire eventuali vuote moralità e compiacimenti o auto-compiacimenti mai però di sapore elegiaco sentimentale, così deleterio questo per la nostra tradizione narrativa anche novecentesca nelle sue molteplici correnti e nei suoi più significativi movimenti. E poi il tradimento che appare come una sorta di "mission", come imperscrutabile ed oscura pulsione che anima, anche se dietro le quinte, ogni nostro agire anche di stampo buonistico, cifra tematica costante nel Pontiggia, come esemplificano Il giocatore invisibile e La grande sera. In questo contesto abitano famiglie per certi versi opprimenti con le loro scelte, con i loro must ideologico -sentimentali, e poi le personali rivendicazioni parentali, le necessità economiche impellenti o voraci, con figli che loro malgrado si ribellano allorquando sono mansueti nel camminare nello stretto e ripido sentiero-pensiero tracciato dai genitori . 
La famiglia che implode ed esplode, deflagra e crolla è forse scelta come emblema di una società e di esseri umani incapaci sostanzialmente di piantare saldamente i piedi a terra ed affrontare l'orizzonte senza essere preda di vaghe e rapaci illusioni, diventando così morbi incancreniti della prima cellula da sempre identificata come pietra basilare per costruire una società stabile e civile. 
Non ci sono valori che tengono in un ritmo narrativo comunque regolare, quasi asfittico, ma che denota vertigini e profondità di raro e incisivo spessore, nelle disperazioni acute, nelle rassegnazioni putrescenti, nelle apparizioni brillanti, nelle delusioni cocenti. Amare la desertificazione dei sentimenti e delle emozioni oppure inabissarsi nel carnevale illusorio del tutto o niente, vite disparate ed ingorde oppure avide o avare, tese a dispensare, nutrire oppure limitare illusioni. E Pontiggia dà il meglio di sé in questo suo vigoroso nonché tenebroso senso noir dell'amore e della possibile verità, donando impressionismi di accesa tonalità. Un tocco sapiente di minimalismo crepuscolare, dove il tutto è niente, ma tutt'altro che consolatorio o nichilistico, perché non mancano insperati e incredibili capovolgimenti, dove la felicità e la serenità vengono ad ubriacare le varie seti che affliggono inesorabili le anime composite o scomposte del mondo. 

Con costanza nelle pagine appaiono con chiarezza uomini spesso più che dissoluti dissolventi, loro e gli altri, donne anche nella sconfitta certe di una vittoria futura e superiore, a loro modo esageratamente cattive e perfide, con sullo sfondo sempre la morte per tutti costantemente in agguato, spietata, fredda e ovviamente inavvertibile, a spalancare le fauci e ad inghiottire più o meno prematuramente ogni speranza o redenzione, oppure dedite a sancire una serenità impossibile su questa terra, seppur vanamente cercata e ri-cercata se non addirittura concupita, oppure giunta alfine troppo tardi.

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