Non so se qualcuno ricorda una canzone di Francesco De Gregori del 1985,
che recitava "la storia siamo noi". Bene. Quel pezzo, sebbene
probabilmente scritto per altri intenti, mi fa da sottofondo ideale a questo
testo di Giuseppe Pontiggia, narratore lombardo recentemente scomparso,
scrittore di notevoli doti e di discreto successo e probabilmente estraneo alle
mafie intellettuali ed editoriali.
Il testo in questione è composto da diciotto
capitoli, brevi come un racconto ma lunghi come diciotto esistenze, sorta di
schede anagrafiche ma non solo, delimitate da nascita e morte del personaggio
principale, rigorosamente con luogo, data e modalità. Storie comuni, brandelli di vita, istanti cruciali.
E appunto appaiono come dossier di una sorta di
agente segreto, che scagliona e viviseziona i momenti comunque decisivi di
diciotto fra uomini e donne che attraversano il secolo ultimo scorso dagli
albori al Duemila.
Operazione narrativa certo di connotazione
sperimentale dove però non si persegue lo stupefacente onirico, il fantastico o
l'espediente formale di natura artificial-pirotecnica.
Anzi.
Nel solco di una lontana e feconda tradizione
che affonda le sue radici in antenati classici come Plutarco e Svetonio dediti
alla biografia, qui si storicizza la vita al fine di rendere immortale un
contesto sociologico. Stavolta i personaggi sono dei "signor
nessuno", anche se bene o male tutti alla fine di estrazione alto
borghese, difficilmente vittime degli stenti anche se spesso coinvolti in
disavventure personali causate da terremoti socio-economici di ben più vasta
portata .
Al di là della effettiva non notorietà dei
Vitali Antonio, Bertelli Claudia, Prezzemolo Giovanna, Tornaghi Luigi,
personaggi che animano e vivificano queste pagine, essi assieme agli altri
assumono una loro autonomia e dignità personale e nello stesso tempo sono parti
di un evidente tutto, il raccontare la vita attraverso i momenti che la
decidono e che noi non decidiamo, benché tutti siamo animati da fervori e
tremori, da stupori e livori, rancori ed amori.
E questa idea di parte di tutto viene in un
certo senso rafforzata dal pezzo iniziale e da quello finale, che presentano
analogie nello svolgimento e dunque suggeriscono circolarità.
Per il resto, dicevamo, evidenziamo la costante
presenza mai invadente di insoddisfazione, felicità, appagamento interiore ed
esteriore, una sorta di storia d'Italia attraverso l'uomo comune.
Dialoghi scarni, incisivi, colpi di frusta e
cambi di direzione, vere e proprie scosse fulminanti per punire eventuali vuote
moralità e compiacimenti o auto-compiacimenti mai però di sapore elegiaco
sentimentale, così deleterio questo per la nostra tradizione narrativa anche
novecentesca nelle sue molteplici correnti e nei suoi più significativi
movimenti. E poi il tradimento che appare come una sorta di "mission",
come imperscrutabile ed oscura pulsione che anima, anche se dietro le quinte,
ogni nostro agire anche di stampo buonistico, cifra tematica costante nel
Pontiggia, come esemplificano Il giocatore invisibile e La grande sera. In questo contesto abitano famiglie per certi versi
opprimenti con le loro scelte, con i loro must ideologico -sentimentali, e poi
le personali rivendicazioni parentali, le necessità economiche impellenti o
voraci, con figli che loro malgrado si ribellano allorquando sono mansueti nel camminare
nello stretto e ripido sentiero-pensiero tracciato dai genitori .
La famiglia che implode ed esplode, deflagra e
crolla è forse scelta come emblema di una società e di esseri umani incapaci
sostanzialmente di piantare saldamente i piedi a terra ed affrontare
l'orizzonte senza essere preda di vaghe e rapaci illusioni, diventando così
morbi incancreniti della prima cellula da sempre identificata come pietra
basilare per costruire una società stabile e civile.
Non ci sono valori che tengono in un ritmo
narrativo comunque regolare, quasi asfittico, ma che denota vertigini e
profondità di raro e incisivo spessore, nelle disperazioni acute, nelle
rassegnazioni putrescenti, nelle apparizioni brillanti, nelle delusioni
cocenti. Amare la desertificazione dei sentimenti e delle emozioni oppure
inabissarsi nel carnevale illusorio del tutto o niente, vite disparate ed
ingorde oppure avide o avare, tese a dispensare, nutrire oppure limitare
illusioni. E Pontiggia dà il meglio di sé in questo suo vigoroso nonché
tenebroso senso noir dell'amore e della possibile verità, donando
impressionismi di accesa tonalità. Un tocco sapiente di minimalismo
crepuscolare, dove il tutto è niente, ma tutt'altro che consolatorio o
nichilistico, perché non mancano insperati e incredibili capovolgimenti, dove
la felicità e la serenità vengono ad ubriacare le varie seti che affliggono
inesorabili le anime composite o scomposte del mondo.
Con costanza nelle pagine appaiono con chiarezza
uomini spesso più che dissoluti dissolventi, loro e gli altri, donne anche
nella sconfitta certe di una vittoria futura e superiore, a loro modo
esageratamente cattive e perfide, con sullo sfondo sempre la morte per tutti
costantemente in agguato, spietata, fredda e ovviamente inavvertibile, a spalancare
le fauci e ad inghiottire più o meno prematuramente ogni speranza o redenzione,
oppure dedite a sancire una serenità impossibile su questa terra, seppur
vanamente cercata e ri-cercata se non addirittura concupita, oppure giunta
alfine troppo tardi.
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