18 gennaio 2015

Everyman (Philip Roth)

Una storia impervia, densa ma scorrevole che con 116 pagine presenta il resoconto di una esistenza, quella del protagonista indiscusso ed indiscutibile della storia, che però troviamo all’inizio essere sepolto nella fossa. E allora andiamo a conoscerlo, perché ci viene raccontato con approfonditi, letali flashback.
Tre matrimoni, affetti di ogni tipo, fatti ed antefatti ed una continua sola missione: la vita, costi quel che costi, perché è la cosa più bella e più brutta che ci è data e che è destinata a finire, qualunque cosa tu faccia. Chiaro che quando arriva la morte si fanno i bilanci e si ha paura, quando le forze decadono, l’egocentrismo vacilla e si piangono lacrime di coccodrillo anche se tutto sommato si è stati talmente bravi da avere solo successi e denaro, ma anche poi l’inevitabile solitudine, perché tutto si paga, anche il conto degli affetti.
 
 

Tre donne, ufficiali, oltre avventure temporanee, con la prima moglie Cecilia inetta ed incapace a custodire oltre che a custodirsi, ma madre di due figli che lo ignoreranno tutta la vita, anche se se a sua discolpa tiene  precisare che non ha mancato un pagamento. Poi Phoebe, delicata, inusuale e sensuale Phoebe, quella meglio e più donna delle altre, ovviamente destinata come tutte le donne (e  gli uomini) che danno ad essere consumata e tradita, perché lui affogherà nella classica storia da cinquantenne con una avvenente ed arrapante, ma che poi sotto il vestito niente. E poi i figli, gli amici, la carriera, le malattie, i soldi, l'11 settembre, il seppellimento dei genitori, la radice ebrea che rimane, dentro anche se non fuori. Completo, devitalizzante, complesso. Ma è una storia di morte, di debolezza anhe quando si vince, si quella tragica eterna imperfettitudine di cui siamo fatti.
Storie di peccati, di presunte redenzioni, di ipocrisie umane analizzate come se si fosse al microscopio e si vorrebbe dimostrare siamo corrotti, corruttibili e soprattutto temporalmente limitati, non c’è scampo, siamo imperfetti e facciamo finta di non ricordarcelo. Una storia cinica ma indubbiamente reale, vagamente qua e là misogina, ma tutto sommato potente, credibile e veritiera.

Evidente il fatto che uno dei narratori globalmente più apprezzati, coniughi diverse radicate radici, dall'ebraismo, al cinismo narrativo statunitense alla migliore tradizione europea classica. Mi viene in mente Thomas Mann di "Morte a Venezia", anche perché Roth è un decadente ed il fatto che nel 2000 siamo ancora nel decadentismo la dice lunga sullo sviluppo della umana mediocrità.
Roth indaga scruta ha un solo difetto, lui la realtà non ce la racconta ma ce la impone, la sua narrativa non è né aggressiva o barocca ma ti chiude qualsiasi spiraglio, non ti lasci scampo, non ti da una seconda possibilità. Una visone egocentrica ed autoreferenziale della comunicazione letteraria ma condotta con una capacità ed una maestria che è impossibile non riconoscere. E Franzen , il mio stimato Franzen specie di "Correzioni" ha preso tanto da lui, ma è molto più arioso e meno onnicomprensivo, lascia qualche tarlo del dubbio, ecco perché seppur obiettivamente simile, mi risulta più congeniale, parere mio da lettore ed autore.

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