26 febbraio 2015

Il deserto dei Tartari (Dino Buzzati)

"Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì...per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione..."

Così cominciano le esistenze nel mondo degli adulti. si vince un concorso, si apre un esercizio commerciale, si supera brillantemente un colloquio presso l'azienda che sognavi.

Si è assegnati ad un posto e tu ti cimenti con il tuo presente sapendo che l'obiettivo è il futuro.

E allora una nutrita e selvaggia schiera di aspettative si slancia all'assalto di questo futuro, tu sei lì, il loro comandante e a briglia sciolta slanci il cavallo del tempo che passa per conquistare quello che brami, le terre straniere della tua consacrazione al mondo, corri per valicare confini che però invece di avvicinarsi non fanno altro che allontanarsi, ti solleticano con l'idea di essere a portata di mano ma manca sempre un millimetro, diavolo, per raggiungerli...


Il tenente Drogo ha ambizione. La sua prima meta è ricca di promesse, di futuri slanci, di eccellenti sfumature, di medaglie di decorazione al valor militare, è gravida di prestigio, carriera, sviluppi, intrecci, insomma quel marasma gotico e suadente chiamato le possibilità.

La fortezza è l'ultimo bastione sul deserto che separa questa civiltà composta e benpensante dal nemico, i Tartari, ignoti quanto temuti, onnipresenti nella loro continua assenza, minacciosi nella loro invisibilità. Ma si sa, i Tartari arriveranno e chi sarà alla Bastiani potrà dare mostra del proprio coraggio e valore ed eroicamente, fino allo stremo delle forze, difenderà combattendo, dando un senso alla lunga e meticolosa preparazione per la improvvida ma agognata battaglia finale
Drogo ambisce a vivere quel momento catartico e supremo, magari un solo secondo, ma il classico istante di tempo che vale la pena di essere vissuto. ed allora vanno bene le criptiche asserzioni dei superiori, vanno bene il lento ma costante assentarsi dagli affetti e dalle abitudini consolidate nella giovinezza, vanno bene gli astrusi e appesantiti meccanismi della gestione della fortezza, ogni minimo particolare infatti è necessario per tenere a regime l'imponente macchina che permetterà la vittoria. E la monotonia inizia incredibilmente a ballare con i ritmi del desiderio che titilla e anima il cuore.Drogo distilla il tempo quasi fosse egli stesso una clessidra, si astrae, si meccanizza, la sua anima ormai ha messo nel freezer ogni stilla di energia per lo scontro che dovrà arrivare.

La fortezza, così maestosa ma grigia, così rigida eppure come se fosse vita allo stato puro, lo lusinga e conquista. E mentre fuori il tempo scorre, mentre gli amici invecchiano, Drogo e il suo plotone, Drogo e di suoi superiori arrivano ad osservare sempre più ligiamente i regolamenti della Bastiani, al fine di scongiurare la sfuggente ma incombente minaccia di un'invasione sempre imminente eppur distante.

Drogo torna in licenza a casa ma subito comprende che è straniero in terra straniera, la fortezza ha edificato nel suo cuore radici così profonde che dominano il suo animo e ormai possiedono maniacalmente il suo destino.

Ed il tempo passa, ma i Tartari possono arrivare. Il congegno narrativo è perfetto, tutto costruito per la rapida corsa finale. Chissà se i Tartari arriveranno, o se Drogo invece perderà la sua scommessa prima di aver combattuto.
Metafora limpida della condizione del quotidiano esistere, il romanzo definito kafkiano ma assolutamente distante dalla lucida e terribile oggettività onirica del praghese, più vicino direi agli ostracismi titanici del vivere ravvisabili nei pezzi più inspirati dell'esistenzialista Camus, "Il deserto dei tartari" (1940) è il capolavoro di Buzzati, maestro del fantastico, conservatore socalmente utile volto a preservare i suoi sogni dall'incombere dell'esistenza giornaliera, riservato e distante, unico nel suo genere nell'Italia sentimentale e tutta impregnata di neo e post realismo.

Tale storia è un grido isolato ma non disperato, che racchiude in sé quella particolare dimensione in cui l'uomo letterario del novecento si è trovato a vivere. Da segnalare che la versione cinematografica a metà degli anni settanta segna un'inversione di tendenza nel rapporto contrastato fra film e romanzo, in quanto Zurlini, regista non certo di grido, sceglie coraggiosamente un'assoluta fedeltà al testo senza che la lentezza narrativamente necessaria affossi il film in uno stantio ossequio ai tempi dell'attesa.Stile lineare, quasi elementare (per cui il giudizio di cinque stelle è forse eccessivo), digressioni ampie ma non ellittiche per una parabola che vuole assurgere ad insegnamento.
Ciascuno che ama la vita, che vuole vivere, arriverà a capire che il suo destino è comunque quello di essere un tenace ergastolano che brama pindariche eppure struggenti evasioni che val la pena di tentare, quasi fossimo tutti Conti di Montecristo che però rimarrano prigionieri del loro stesso essere uomini.

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