“Non puoi sapere nulla. Le cose che sai... non le sai.
Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è
stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere.”
Nella storia di Coleman Silk, professore
universitario costretto alla pensione, si crede di sapere tutto ed invece
sfugge sempre qualcosa, o lo si minimizza e il dramma alla fine si impone come
unico filo conduttore. Dai rapporti famigliari, alle vicissitudini e alle scelte
discutibili fatte personalmente, ai terribili giochi che ci regala il destino,
ebbene c’è un sotteso senso di cupio dissolvi.
Silk viene cacciato dall'università con l'addebito di un accusa grave ma dalle motivazioni futili. Lui, che aveva tiranneggiato l'ateneo per decenni. La moglie muore di dolore a vederlo così sconfitto ed irritato. Poi conosce una donna delle pulizie ed uno scrittore appartato che si interessa al caso. Il resto verrà da sé. Anche l'oscuro passato del professore.
Silk viene cacciato dall'università con l'addebito di un accusa grave ma dalle motivazioni futili. Lui, che aveva tiranneggiato l'ateneo per decenni. La moglie muore di dolore a vederlo così sconfitto ed irritato. Poi conosce una donna delle pulizie ed uno scrittore appartato che si interessa al caso. Il resto verrà da sé. Anche l'oscuro passato del professore.
Un Roth maestoso ed
apocalittico, nonostante quella sua leziosità verbosa volta secondo me a
pavoneggiarsi e specchiarsi nella sua scrittura aggrovigliata e claustrofobica. Ma romanzo ben architettato, verrebbe da dire "perfetto".
“La maggior parte della gente non vorrebbe forse uscire
dalla vita di merda che le è capitata in sorte? Ma non lo fa, ed è questo che
la rende ciò che è”.
Una storia statunitense che
potrebbe però svolgersi in altre parti del mondo, benché geograficamente e
storicamente contestualizzata. Qui la grandezza dell’autore. La nettezza e
limpidità di questi caratteri contorti e deviati, a volte aggrovigliati su sé stessi
a volte tesi a sfamarsi con le miserie degli altri. Poi la descrizione accurata
delle pulsioni spesso alla fine distruttive rendono ancora una volta merito a
quello che da molti lettori viene considerato il più grande narratore contemporaneo.
“noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta.
Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per
essere qua”.
Già dal titolo l’assioma
portante della narrazione è chiaro: abbiamo tutti una o più macchie nel nostro
esistere. Non siamo lindi, tantomeno limpidi. E non sempre proviamo a pulirle
le nostre sporcizie, anzi, al massimo le nascondiamo con cura, ma non proviamo
sempre dei gran sensi di colpa. L’imperfettibilità umana è questa, decreta
l’autore e, al di là dei torti subiti o delle ragioni vantate da ciascuno, è
una triste, amara ma concreta verità. A voler essere cinici, certo, come lo è
lo scrittore. Non è nichilismo postmoderno. Il tutto è più che argomentato
narrando gesti, azioni, pensieri, appare come una lucida consapevolezza di una
granitica verità primordiale, l’archetipo alfa, junghianamente parlando.
Non c’è ironia di sorta,
non c’è motto di spirito. Una massiccia dose di realismo, una pesantezza
dell’essere senza nessuno scampo. Non che la vita sia solo dolore, rancore,
odio eccetera. Ma certo l’egoismo (se non egotismo) alla fine prevale in tutti,
che si sia vittima o carnefici, che si abbia coraggio o paura. Perfetti i
personaggi, compreso l’io narrante, alterego di Roth stesso, perfetto il
dipanarsi dell’intreccio fino all'esemplare finale. Da leggere insomma.
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