23 aprile 2017

La macchia umana (Philip Roth)

“Non puoi sapere nulla. Le cose che sai... non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere.”
Nella storia di Coleman Silk, professore universitario costretto alla pensione, si crede di sapere tutto ed invece sfugge sempre qualcosa, o lo si minimizza e il dramma alla fine si impone come unico filo conduttore. Dai rapporti famigliari, alle vicissitudini e alle scelte discutibili fatte personalmente, ai terribili giochi che ci regala il destino, ebbene c’è un sotteso senso di cupio dissolvi.
Silk viene cacciato dall'università con l'addebito di un accusa grave ma dalle motivazioni futili. Lui, che aveva tiranneggiato l'ateneo per decenni. La moglie muore di dolore a vederlo così sconfitto ed irritato. Poi conosce una donna delle pulizie ed uno scrittore appartato che si interessa al caso. Il resto verrà da sé. Anche l'oscuro passato del professore.
Un Roth maestoso ed apocalittico, nonostante quella sua leziosità verbosa volta secondo me a pavoneggiarsi e specchiarsi nella sua scrittura aggrovigliata e claustrofobica. Ma romanzo ben architettato, verrebbe da dire "perfetto".


“La maggior parte della gente non vorrebbe forse uscire dalla vita di merda che le è capitata in sorte? Ma non lo fa, ed è questo che la rende ciò che è”.  
Una storia statunitense che potrebbe però svolgersi in altre parti del mondo, benché geograficamente e storicamente contestualizzata. Qui la grandezza dell’autore. La nettezza e limpidità di questi caratteri contorti e deviati, a volte aggrovigliati su sé stessi a volte tesi a sfamarsi con le miserie degli altri. Poi la descrizione accurata delle pulsioni spesso alla fine distruttive rendono ancora una volta merito a quello che da molti lettori viene considerato il più grande narratore contemporaneo. 

“noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qua”.
Già dal titolo l’assioma portante della narrazione è chiaro: abbiamo tutti una o più macchie nel nostro esistere. Non siamo lindi, tantomeno limpidi. E non sempre proviamo a pulirle le nostre sporcizie, anzi, al massimo le nascondiamo con cura, ma non proviamo sempre dei gran sensi di colpa. L’imperfettibilità umana è questa, decreta l’autore e, al di là dei torti subiti o delle ragioni vantate da ciascuno, è una triste, amara ma concreta verità. A voler essere cinici, certo, come lo è lo scrittore. Non è nichilismo postmoderno. Il tutto è più che argomentato narrando gesti, azioni, pensieri, appare come una lucida consapevolezza di una granitica verità primordiale, l’archetipo alfa, junghianamente parlando.

Non c’è ironia di sorta, non c’è motto di spirito. Una massiccia dose di realismo, una pesantezza dell’essere senza nessuno scampo. Non che la vita sia solo dolore, rancore, odio eccetera. Ma certo l’egoismo (se non egotismo) alla fine prevale in tutti, che si sia vittima o carnefici, che si abbia coraggio o paura. Perfetti i personaggi, compreso l’io narrante, alterego di Roth stesso, perfetto il dipanarsi dell’intreccio fino all'esemplare finale. Da leggere insomma.

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