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14 febbraio 2018

Underworld (Don De Lillo)

Quante domande ci e si pone De Lillo in questo romanzo poderoso? Abbastanza. Alcune anche con risposta motivata, il che non guasta e rende l’opera oltre che imponente anche importante. In una folle vertiginosa corsa. Perché il tutto è strutturato su ripetuti salti temporali in avanti o all’indietro, con continui cambi di prospettiva, segnati senza sosta dal passaggio della narrazione dalla prima alla terza persona, dal discorso indiretto al monologo interiore. Scorrono così cinquanta anni di Stati Uniti raccontati da un autore che lo vogliano ammettere o meno, ha segnato tutti i narratori contemporanei made in Usa, un po’ come fece Twain ad inizio Novecento. E pensare che la struttura portante del libro è una pallina da baseball. Magica a suo modo. Ovvero quella che fu protagonista di un fuoricampo con cui  il 3 ottobre 1951 Bobby Thomson dei New York Giants consegnò la sua squadra alla storia battendo i Brooklyn Dodgers di Ralph Branca. E che passerà di mano in mano, in maniera avventurosa, fino ai giorni nostri, protagonista a suo modo in decine di altre esistenze.