Quel che non sai tu, quel
che non so io. Epperò alla fine facciamo quadrato, che siamo nel mezzo di un cerchio
che ci stringe
Il preponderante Jim. L’afflitto
e amletico Bob. La complicata Susan. Gli ultimi due son gemelli, separati dalla nascita e con vite diverse, entrambi divorziati, l’altro è il fratello
più grande, ormai noto avocato, adulato da tutti, compresa dalla fedele ed
insicura moglie Helen. Se non che il figlio di Susan, il timido Zach, getta una
testa di maiale dentro una moschea della sua sperduta e amena cittadina del
Maine. Perché lì esiste un problema drammaticamente attuale come la convivenza
fra la neonata comunità somala e gli indigeni. Niente sarà come prima. Perché il
passato passa, anche quel drammatico incidente in cui pare che Bob abbia
causato al morte del apdre sfrenandogli il trattore addosso, a 4 anni. Ma la famiglia è famiglia. Forse.
“Ma Bob non era più giovane, e sapeva cosa significasse aver subito una perdita. Conosceva la calma che subentrava, la forza accecante del panico, e sapeva che ogni perdita portava con sé un bizzarro, a malapena consapevole, senso di liberazione"
Ho trovato conferma nel libro del notevole talento della Strout, già amata incondizionatamente alla prima lettura fatta con Olive Kitteridge.
Prosa ricercata, talvolta aggettivazione
un po’ leziosa, mi ricorda alcuni passi di Stephen King un po’ troppo manierati,
ma son dettagli. Uno scandaglio delle psicologie perfetto, lineare e limpido,
senza fronzoli o morbosi approfondimenti, con magistrale descrizione tramite gesti,
azioni e dialoghi, più che indugi e voli pindarici.
Come nell’altro libro,
anche qui abbastanza evidente è la potenza dissolutoria del senso di colpa, che
dirige e fa franare le esistenze. Seppur chiaro che non siamo determinati ma
mere prede della casualità, ci attribuiamo come esseri sovrumani delle
responsabilità in merito allo svolgersi dei fatti e questa incoronazione porta
pene e ripensamenti di carattere ancestrali e dagli sviluppi imponderabili
Meno soffocante di Roth,
meno totalizzante di Franzen, tuttavia la scrittrice rimarca due cose a mio
parere fondamentali. La famiglia è morta, come istituzione e come credo, ma
viva la famiglia. E che siamo talmente imperfetti da sfiorare la perfezione
nell’esserlo.
Una notazione: finale
affrettato e decisamente consolatorio, anche con la furbata di lasciare non
conclusa una vicenda tanto per darsi le arie da finale aperto. A mio parere si
poteva costruire meglio. Ma appunto, nessuno scrittore è perfetto, neanche io.
Nessun commento:
Posta un commento