16 luglio 2016

I ragazzi Burgess (Elizabeth Strout)

Quel che non sai tu, quel che non so io. Epperò alla fine facciamo quadrato, che siamo nel mezzo di un cerchio che ci stringe
Il preponderante Jim. L’afflitto e amletico Bob. La complicata Susan. Gli ultimi due son gemelli, separati dalla nascita e con vite diverse, entrambi divorziati, l’altro è il fratello più grande, ormai noto avocato, adulato da tutti, compresa dalla fedele ed insicura moglie Helen. Se non che il figlio di Susan, il timido Zach, getta una testa di maiale dentro una moschea della sua sperduta e amena cittadina del Maine. Perché lì esiste un problema drammaticamente attuale come la convivenza fra la neonata comunità somala e gli indigeni. Niente sarà come prima. Perché il passato passa, anche quel drammatico incidente in cui pare che Bob abbia causato al morte del apdre sfrenandogli il trattore addosso, a  4 anni. Ma la famiglia è famiglia. Forse.



“Ma Bob non era più giovane, e sapeva cosa significasse aver subito una perdita. Conosceva la calma che subentrava, la forza accecante del panico, e sapeva che ogni perdita portava con sé un bizzarro, a malapena consapevole, senso di liberazione"
Ho trovato conferma nel libro del notevole talento della Strout, già amata incondizionatamente alla prima lettura fatta con Olive Kitteridge.
Prosa ricercata, talvolta aggettivazione un po’ leziosa, mi ricorda alcuni passi di Stephen King un po’ troppo manierati, ma son dettagli. Uno scandaglio delle psicologie perfetto, lineare e limpido, senza fronzoli o morbosi approfondimenti, con magistrale descrizione tramite gesti, azioni e dialoghi, più che indugi e voli pindarici.
Come nell’altro libro, anche qui abbastanza evidente è la potenza dissolutoria del senso di colpa, che dirige e fa franare le esistenze. Seppur chiaro che non siamo determinati ma mere prede della casualità, ci attribuiamo come esseri sovrumani delle responsabilità in merito allo svolgersi dei fatti e questa incoronazione porta pene e ripensamenti di carattere ancestrali e dagli sviluppi imponderabili
Meno soffocante di Roth, meno totalizzante di Franzen, tuttavia la scrittrice rimarca due cose a mio parere fondamentali. La famiglia è morta, come istituzione e come credo, ma viva la famiglia. E che siamo talmente imperfetti da sfiorare la perfezione nell’esserlo.
Una notazione: finale affrettato e decisamente consolatorio, anche con la furbata di lasciare non conclusa una vicenda tanto per darsi le arie da finale aperto. A mio parere si poteva costruire meglio. Ma appunto, nessuno scrittore è perfetto, neanche io.


Nessun commento:

Posta un commento