Violenza domestica. Patriarcato. Essere donna, nel bene e nel male. Parole certo . Attuali, molto parlate, ma tanto poi si dimentica tutto. Immaginate dunque uno dei maggiori quotidiani nazionali o dei settimanali gossippari di oggi, col titolo di apertura strillato in prima pagina: “Morto cadendo dal terrazzo. Incidente o omicidio?" e via una bella foto del deceduto a campeggiare. E poi il circo trash e morboso dell’apparato massmediatico coi social compresi, i ritratti piccanti o picareschi, i particolari pruriginosi, il contorno malmostoso, sanguinolente e mellifluo sui posti, i precedenti, le varie ed eventuali. Questo sicuramente non accadde a Beatrice Cenci, almeno in questa misura onnivora e onnipresente, essendo vissuta oramai più di 4 secoli fa, e protagonista di una vicenda molta nota, una tragica saga famigliare. La storia si svolge agli estremi sgoccioli del 1500, non abbiamo tv ed internet e racconta un fattaccio brutto di una famiglia romana una volta facoltosa ed ora lentamente digradante nel baratro dei debiti, il cui duce in pectore è il dissoluto ed insolvente capofamiglia Francesco, con coprotagonisti la sua seconda moglie, la remissiva Lucrezia, ed i figli, tra cui spiccano, tra morti in rissa ed arrestati, Giacomo e la giovane bella Beatrice. Quest’ultima, data la vita borderline del detto padre, è da lui costretta ad un esilio forzato nei lontani Abruzzi, in un castello, che più che fatato è quasi una prigione, per evitare di doverla maritare e sganciare sganciare la dote prevista da una condanna papale per una delle sue numerose bravate notturne. Che di bravo o di bello ovviamente non hanno niente, si narrano di atti di sodomia e pedofilia (peraltro solo la prima penalmente rilevante, allora, in nome del Papa re).
Beatrice Cenci è come si dice una persona avanti, che vive e pensa oltre i confini ristretti dell’epoca, oltre la dimensione tipica della donna romana e non solo, o libertina ma ricca, o tutta casa, chiesa e figli, possibilmente maschi, da accudire. E come se fosse una delle donne più in vista di oggi controtendenza, la nostra
bella ragazza e di casata non nobile ma comunque ben ammanicata, conosce personaggi dell'epoca del calibro di Caravaggio (qui decisamente umbratile e generoso, tra il dark e il romantico, un Foscolo più moderno) e Giordano Bruno, che obbiettivamente non possiamo assimilare oggi a Vittori Sgarbi (che peraltro non dipinge credo) e Marco Travaglio, ma ogni epoca ha i nomi che si merita. In più Beatrice frequenta salotti importanti ma non per questo dediti solo al chiacchiericcio o ad intrighi politico-amorosi, insomma, non va dalla Venier o dalla De Filippi. Al di là di parallelismi improbabili e puramente esemplificativi, il romanzo, seppur saldamente e con capacità incatenato all’età in cui è ambientato, offre spunti e riflessioni di estrema attualità, anche se lì siamo in un fine secolo travagliato e corrotto, dove la Chiesa invece di reagire in maniera adeguata all'ormai dilagante diaspora dei protestanti, preferisce irrgidirsi ed essere inflessibile con scostumati di nome e fama, quando poi al suo interno il clero ancora persegue fini poco cristiani e caritatevoli anzi, a volte sprofonda nell'abisso dell'avidità e della lussuria. E la nobilanza e l’alta borghesia papaline sguazzano e sopravvivono in questa paludosa acqua stagnante, che di purificante ha ben poco, finché poi secoli dopo la Storia porterà il conto e sarà salatissimo. In questo contesto il dramma della giovane, tra l’esilio forzato, le pulsioni proprie represse, gli amori impossibili e le violenze quasi quotidiane del padre senza freni, che al confronto il genitore dell’iconico Padre padrone di Gavino Ledda è quasi un tenerone un poco anaffettivo, non possono che deflagrare e portare ad un finale tragico, con in più i toni di vago sapore shakespeariano tra dissidi interiori e faide familiari, visto che si agirà in gruppo e non certi isolatamente. Merito della Teodori di trarre linfa e sostanza da vicende realmente accadute e personaggi realmente esistiti, ma combinando una plot originale intriso di Storia, senza troppo divagare ma senza lasciare imbrigliare la trama dallo svolgimento dei fatti che fu. Ancora una volta l’autrice dimostra una propria cifra stilistica (già notata nell’altro libro da me letto, Voci partigiane) con rara capacità
di trovare una scrittura mimetica che sembra calarsi e ricalcare quella in voga nel periodo narrato. Rimane altresì come la scorsa lettura che a volte l'autrice tenga imbrigliati estro e penna, vuoi per volontà, vuoi per inconsapevolezza o scelte editoriali, ma questa è mera impressione personale che non toglie piacere alla lettura. Per il resto vi rimando alla effervescente ma non vacua giovane Cenci ed al suo amico fidato e risoluto, quel Michele detto Caravaggio che oltre a dipingere sapeva o perlomeno voleva aiutare chi perseguiva giusti fini e gli voleva bene.
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