Non so perché Pontiggia sia praticamente scomparso dal panorama della lettura. Autore maniacale e metodico, dedito alla scrittura, di grande onestà intellettuale e di grandi capacità descrittive senza ammorbarci con lo psicologismo spinto. Nel romanzo “La grande sera”, vincitore del premio Strega nel 1989, non appare speranza, non c’è sorriso, non c‘è luce, è un crepuscolare ed irrimediabile tramonto senza nemmeno troppo malinconici effetti da cartolina romantica anche postdatata. Un titolo azzeccato, dunque, stante ad indicare neanche troppo metaforicamente il preludio ad una notte dell’anima, con tutti i personaggi avviati verso la vecchiaia, alla disperata ricerca di un senso e di una direzione a volte blandendo una altra vita o radicali svolte che puntualmente rimangono irretite nelle paure a.
Assenze.
Convergenze su quello che manca, è mancato, mancherà. E se non manca, deficita.
Un lungo encomio sulla carenza. Affettiva, sentimentale, spirituale o
semplicemente della volontà. Una accurata e quasi dissennatamente misurata
illustrazione di una disfatta esistenziale, di un torpore languido e
crudelmente asettico, ibrido, frigido.
Una decadenza non solo morale e
non solo fisica, un marcire di sogni e velleità, in un’ aspra lotta che anima
ogni protagonista tra quello che si è e quello che si voleva o credeva di
essere.
“L’uomo che non c‘era” si potrebbe intitolare la recensione, perché
si tratta di una scomparsa. Un uomo, benestante, inafferrabile, dedito con
sorda e virile bramosia al successo, scompare. Benché la vita gli sorrida , le
donne si innamorino e gli affari vadano a gonfie vele. Suo fratello, la moglie,
le amanti, i compagni di imprese più o meno losche, saranno gli estensori
allora di un testamento. Più del loro che di quello dello scomparso.
Il quadro che viene delineato infatti è
radicalmente marcato da un essere costantemente alla ricerca di una
verità ultima, di un appiglio definitivo, di un’isola che non c’è o si vorrebbe
che ci fosse.
Trattasi dunque di un’ accurata e
mirabile dissertazione su un’assenza che però è fortemente presente e rende
palpabili quelle rimosse o annichilite identità dimidiate e vilipese di tutti
gli alti protagonisti, efferatamente deboli e dai tratti ridicoli per quanto quasi
tutti dotati di una lucida e cinica autoconsapevolezza del deterioramento delle
proprie presunte virtù e dei propri agognati e mai realmente inseguiti sogni. E
la narrazione non intende celiare o tergiversare, con un’ironia dissacrante a
volte dai tratti quasi crudeli, procede senza indugi o remore di sorta.
L’assenza dell’uomo scomparso allora
diventa giocoforza uno specchio ed un fantasma con cui combattere, discutersi e
discutere gli altri, assomigliare o divergere, emulare o denigrare.
Un romanzo riuscito, compatto, con
abili e sapienti procedimenti mimetici, con il narratore che saggiamente
lascia parlare i protagonisti senza mai intervenire, ma intessendo un ordito
narrativo di rara e sobria eleganza.
Sotto la superficie, una quasi sadica
riluttanza a compatire, nel senso più kunderiano del termine, i vari
protagonisti, che vengono brillantemente illustrati in questa sorta di galleria
narrativa, con un contesto sociologico che non rifiuta la
contestualizzazione nell’era coeva alla narrazione, che riutilizza
l’abusato anche se non forse totalmente usurato clichè del mondo alto borghese
con uomini e donne immersi e quasi affogati nell’abbondanza. E’ comunque un
romanzo d’interni, interni dell’anima e del pensiero, interni di appartamenti,
pied-a -terre, uffici semibui dall’aria misteriosa e vagamente concupiscente,
simboli di amori coltivati, illusi se non derisi fino alle estreme conseguenze.
Ne emerge una distillata ma non
rarefatta esemplificazione di rapporti umani specie amorosi in particolare,
tutti riletti alla luce di una visione pessimistica dell’essere umano, il quale
peraltro è anche spesso ingannato o si autoinganna con la propria forma di
comunicazione, il linguaggio, oggetto di acutissime pagine di riflessione,
messo alla gogna e condannato per le sue intime aporie e dissoluzioni, per le
sue ardite pretese che poi vengono costantemente rese impossibili dalla stessa
natura di significati e significanti.
Prova insomma di uno spessore e di una
incisività rare, nel panorama italiano degli anni ottanta, esempio della
maturità stilistica e narrativa di Pontiggia, un narratore che
riprendendo una “antica” ed a mio parere azzeccata partitura elaborata da
Moravia, è più “scrittore” che “romanziere” in quanto abile inventore
di uno stile, linguaggio e forma, più che confezionatore di una storia
convincente ma in cui non emergono spiccate qualità di originalità e
personalità letteraria. Ulteriore conferma di un talento epresso nella sua vita più volte, basti pensare a Il giocatore invisibile o a Vita di uomini non illustri.
Qui infatti notiamo una lingua non
corposa ma solida e strutturata, esigente e stilizzata non con evoluzioni
barocche o peripezie a carattere sintattico-grammaticale ma con una raffinata,
lucida e fortemente voluta letterarietà, frutto e fulgido esempio della
maniacale revisione posta in essere da Pontiggia dei propri testi, rarissimo se
non unico autore che tornava costantemente sui suoi passi, come peraltro
attesta la sua nota introduttiva a questa edizione "rivista e
corretta per oltre un anno".
La passione per l’etimologia delle
parole, mai sconfinante nel mero ed irritante “accademismo” fine a sé stesso,
il gusto per ossimori, paradossi e per la costante ricerca del quasi aforisma
completano una connotazione autoriale credo di indubbia levatura.
Sorprendente la maturità raggiunta
dall’autore, protagonista certo di brillanti successi editoriali ma che reputo
francamente meritevole di ben più ampia condivisione, considerando che
nell’arco della sua lunga attività seppe dare vigore stile e dignità alla
scrittura senza mai perdersi nel banale o nel ripetitivo, seppur vincitore di
vari premi e pubblicante per la maggiore casa editrice italiana.
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