Spazio alla fantasia. Oltre le miserie quotidiane. Una minuziosa mappatura dei possibili terreni dell'altrove.
Parlare di Dino Buzzati (1906-1972) oggi è per me come ricordare un pezzo di vita. Incontrato sulla variopinta e variegata strada delle mie letture più di venti anni fa per via del suo accostamento al grande scrittore praghese Franz Kafka, che amavo. E poi studiato con passione puntigliosa come "oggetto" della tesi di laurea in critica letteraria. Non perché il veneto sia dunque il mio autore preferito, conoscendone forse più i difetti che i pregi, ma perché forse ingiustamente relegato in un cantuccio nel panorama narrativo italiano forse solo per motivi politici ed ideologici, visto che era conservatore e scriveva un genere estraneo all'imperante e talvolta ossessivo neo-realismo italiano oppure alle varie correnti dei manzoniani.
Un fantastico "old style" che regala sempre qualche brivido, che ti percorre e scorre, scuote le tue paure, fossero anche quelle più semplici, naturali, puerili, genetiche.
Un fantastico insomma misterico e misterioso, in linea con i classici ma rivissuto e rivisitato alla luce di una moderna coscienza contemporanea, che non ha più quelle sicurezze o incertitudini dell'Ottocento ma ha vissuto due guerre mondiali, le prime tensioni sociali ed altri onori ed amori ed orrori della storia dell'uomo. Troviamo molto, di più, in questa corposa anche se discutibile selezione del meglio dei suoi racconti. La presenza di entità misteriose, che preludono a disvelamenti che però saranno fatali, perché l'assoluto è inconoscibile e l'uomo molto piccolo di fronte all'universo come in "Una goccia", dove protagonista è il rumore, la presenza apparentemente innocua di acqua che inverte i percorsi naturali. Oppure la metafora crudele de "Il colombre", dove sono protagonisti pattern buzzatiani costanti come le apparizioni misteriose, l'incredulità costretta a recedere, un bimbo tenuto lontano da un mostro che lo insegue ma che in realtà voleva donargli il bene, la perla del mare. Oppure i contrappassi acidi e corrosivi come "La giacca stregata" l'indumento che produce soldi sicuramente guadagnati tramite sopraffazioni non può che condannare il fortunato possessore a bruciarla. Altra tematica ricorrente, l'ineludibilità di certi destini di cui noi siamo solo effetto e mai causa, Esempi "La canzone di guerra", dove i soldati hanno vinto, ma non sanno esattamente cosa, la canzone che cantano parla di nessun ritorno, un'aria struggente e malinconica che presagisce un destino tragico. Oppure "Qualcosa era successo" dove il treno con i suoi passeggeri conduce inesorabilmente al Nord, da dove però tutti fuggono, sulle strade accanto alle rotaie nelle stazioni ed tutti scappano al contrario dalla meta del convoglio e di passeggeri sono ostaggi, impotenti. Invenzioni come il numero sette, non solo cifra ma segnale di condanna, come ne "I sette messaggeri" (uno dei primi e dei più belli dell'autore) dove oscuri messaggeri sono latori di un importante e decisivo messaggio all'imperatore ma che si perdono negli anni e nelle distanze incolmabili del territorio fino quasi ad annullare il loro vano sforzo. Oppure "I sette piani", dove il numero è riferito ai piani di un ospedale e condannano un buongustaio e gaudente borghese, ricoverato in clinica per un banale accertamento e poi, senza pietà ed inesorabilmente, costretto a scendere di livello fino alla sezione per malati terminali. A proposito di questo mi corre l'obbligo di ricordare il riadattamento teatrale di Buzzati, poi ripreso addirittura da Albert Camus e la versione cinematografica ("Il fischio al naso") con Ugo Tognazzi nelle vesti del protagonista, praticamente perfetto. Talvolta non mancano bizzarre trasfigurazioni dell'attualità, i riferimenti al presente, prima rari poi sempre più fitti, ma che difficilmente hanno riassunto gli esiti di "Paura alla Scala", dove i ricchi spettatori dello spettacolo della prima si barricano alla Scala perché si dice che la città sia invasa dai terribili, temuti ed invisibili Morzi. Nessuno li ha mai visti e però tutti temono. Metafora dell'Italia del dopoguerra e della conclamata minaccia, in ambito borghese, dei comunisti. Frequenti gli accenni al rapporto con Dio, vedi "Racconto di Natale", dove uno stolto sacerdote ha Dio in mano ma non lo vede e lo continua a cercare, o la vibrante metafora de "Il disco si posò", dove protagonisti sono gli interrogativi metafisici se vale la pena di conoscere Dio pur essendo consci che l'uomo vive nel peccato o preferire l'ignoranza assoluta ma anche la mancanza dell'essere supremo, attraverso l'espediente dell'arrivo dei marziani sulla terra. Ed ancora contenuti di più ampio respiro, come l'impossibilità di un rapporto con una donna (generalmente assente dai racconti se non per esili figure di contorno) in "Inviti superflui " oppure il dolore crudele della perdita definitiva di un figlio ne "Il mantello", dove all'insaputa di tutti il rientro di un familiare è in realtà il commiato definitivo di un fantasma ed infine la presente assenza costante della morte e della sua eternità Inutile approfondirli tutti, direi. Bastano questi pochi esempi. Una produzione narrativa costante e talvolta eccessiva che va dalla prima raccolta de "I sette messaggeri" del 1942 a quella postuma de "Le notti difficili" del 1972, senza scordare i suoi cinque romanzi, tra cui il monumentale "Il deserto dei tartari". Almeno nei racconti emerge dunque una sensibilità celata nell' estrapolare l'Altro, il mistero, nel cogliere gli uomini nelle loro piccole ma crudeli nefandezze, che oramai si perpetuano dall'inizio della vita, un peccato originale. E col rischio di scadere nel moralismo più ovvio, quasi come i testi medievali di educazione, gli exempla. Una sfida continua all'ignoto, al soprannaturale ed a quella che li rappresenta meglio, la Morte ed al suo fratello che ad essa conduce, il Tempo ed il suo scorrere. Ma non vi aspettate uno stile memorabile. Agile, nitido pulito, ma raramente incisivo o connotante. I suoi sono racconti sono brevi e taglienti come cronache, personaggio, ambientazione, nucleo e rapido svolgimento, questo nella maggior parte dei casi. Ma il vero talento è la capacità buzzatiana di dare vita e luce a situazioni e metafore come pochi illuminanti, decisivi tocchi. Davvero fuori dell'ordinario. Anche se viene normale che negli anni la sua forse troppo copiosa produzione abbia portato sterili meccanismi iterativi, qualche banalità di troppo, un eccessivo riuso del quotidiano per fini logori e da lui già abusati. Ma rimane sicuramente uno dei maggiori protagonisti europei di una letteratura del genere fantastico e sicuramente il principale italiano, assieme forse solo al più surreale Landolfi ed al teorico filosofeggiante Calvino. Chapeau . Pur ribadendo che non condivido metodi e criteri dell'edizione in argomento.
Un fantastico insomma misterico e misterioso, in linea con i classici ma rivissuto e rivisitato alla luce di una moderna coscienza contemporanea, che non ha più quelle sicurezze o incertitudini dell'Ottocento ma ha vissuto due guerre mondiali, le prime tensioni sociali ed altri onori ed amori ed orrori della storia dell'uomo. Troviamo molto, di più, in questa corposa anche se discutibile selezione del meglio dei suoi racconti. La presenza di entità misteriose, che preludono a disvelamenti che però saranno fatali, perché l'assoluto è inconoscibile e l'uomo molto piccolo di fronte all'universo come in "Una goccia", dove protagonista è il rumore, la presenza apparentemente innocua di acqua che inverte i percorsi naturali. Oppure la metafora crudele de "Il colombre", dove sono protagonisti pattern buzzatiani costanti come le apparizioni misteriose, l'incredulità costretta a recedere, un bimbo tenuto lontano da un mostro che lo insegue ma che in realtà voleva donargli il bene, la perla del mare. Oppure i contrappassi acidi e corrosivi come "La giacca stregata" l'indumento che produce soldi sicuramente guadagnati tramite sopraffazioni non può che condannare il fortunato possessore a bruciarla. Altra tematica ricorrente, l'ineludibilità di certi destini di cui noi siamo solo effetto e mai causa, Esempi "La canzone di guerra", dove i soldati hanno vinto, ma non sanno esattamente cosa, la canzone che cantano parla di nessun ritorno, un'aria struggente e malinconica che presagisce un destino tragico. Oppure "Qualcosa era successo" dove il treno con i suoi passeggeri conduce inesorabilmente al Nord, da dove però tutti fuggono, sulle strade accanto alle rotaie nelle stazioni ed tutti scappano al contrario dalla meta del convoglio e di passeggeri sono ostaggi, impotenti. Invenzioni come il numero sette, non solo cifra ma segnale di condanna, come ne "I sette messaggeri" (uno dei primi e dei più belli dell'autore) dove oscuri messaggeri sono latori di un importante e decisivo messaggio all'imperatore ma che si perdono negli anni e nelle distanze incolmabili del territorio fino quasi ad annullare il loro vano sforzo. Oppure "I sette piani", dove il numero è riferito ai piani di un ospedale e condannano un buongustaio e gaudente borghese, ricoverato in clinica per un banale accertamento e poi, senza pietà ed inesorabilmente, costretto a scendere di livello fino alla sezione per malati terminali. A proposito di questo mi corre l'obbligo di ricordare il riadattamento teatrale di Buzzati, poi ripreso addirittura da Albert Camus e la versione cinematografica ("Il fischio al naso") con Ugo Tognazzi nelle vesti del protagonista, praticamente perfetto. Talvolta non mancano bizzarre trasfigurazioni dell'attualità, i riferimenti al presente, prima rari poi sempre più fitti, ma che difficilmente hanno riassunto gli esiti di "Paura alla Scala", dove i ricchi spettatori dello spettacolo della prima si barricano alla Scala perché si dice che la città sia invasa dai terribili, temuti ed invisibili Morzi. Nessuno li ha mai visti e però tutti temono. Metafora dell'Italia del dopoguerra e della conclamata minaccia, in ambito borghese, dei comunisti. Frequenti gli accenni al rapporto con Dio, vedi "Racconto di Natale", dove uno stolto sacerdote ha Dio in mano ma non lo vede e lo continua a cercare, o la vibrante metafora de "Il disco si posò", dove protagonisti sono gli interrogativi metafisici se vale la pena di conoscere Dio pur essendo consci che l'uomo vive nel peccato o preferire l'ignoranza assoluta ma anche la mancanza dell'essere supremo, attraverso l'espediente dell'arrivo dei marziani sulla terra. Ed ancora contenuti di più ampio respiro, come l'impossibilità di un rapporto con una donna (generalmente assente dai racconti se non per esili figure di contorno) in "Inviti superflui " oppure il dolore crudele della perdita definitiva di un figlio ne "Il mantello", dove all'insaputa di tutti il rientro di un familiare è in realtà il commiato definitivo di un fantasma ed infine la presente assenza costante della morte e della sua eternità Inutile approfondirli tutti, direi. Bastano questi pochi esempi. Una produzione narrativa costante e talvolta eccessiva che va dalla prima raccolta de "I sette messaggeri" del 1942 a quella postuma de "Le notti difficili" del 1972, senza scordare i suoi cinque romanzi, tra cui il monumentale "Il deserto dei tartari". Almeno nei racconti emerge dunque una sensibilità celata nell' estrapolare l'Altro, il mistero, nel cogliere gli uomini nelle loro piccole ma crudeli nefandezze, che oramai si perpetuano dall'inizio della vita, un peccato originale. E col rischio di scadere nel moralismo più ovvio, quasi come i testi medievali di educazione, gli exempla. Una sfida continua all'ignoto, al soprannaturale ed a quella che li rappresenta meglio, la Morte ed al suo fratello che ad essa conduce, il Tempo ed il suo scorrere. Ma non vi aspettate uno stile memorabile. Agile, nitido pulito, ma raramente incisivo o connotante. I suoi sono racconti sono brevi e taglienti come cronache, personaggio, ambientazione, nucleo e rapido svolgimento, questo nella maggior parte dei casi. Ma il vero talento è la capacità buzzatiana di dare vita e luce a situazioni e metafore come pochi illuminanti, decisivi tocchi. Davvero fuori dell'ordinario. Anche se viene normale che negli anni la sua forse troppo copiosa produzione abbia portato sterili meccanismi iterativi, qualche banalità di troppo, un eccessivo riuso del quotidiano per fini logori e da lui già abusati. Ma rimane sicuramente uno dei maggiori protagonisti europei di una letteratura del genere fantastico e sicuramente il principale italiano, assieme forse solo al più surreale Landolfi ed al teorico filosofeggiante Calvino. Chapeau . Pur ribadendo che non condivido metodi e criteri dell'edizione in argomento.
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