05 novembre 2024

Poesie (Endre Ady)

"Sento che da lontano vengono altri.
Ma il lontano dov’è, dove il vicino?
E dove nel mezzo,
stazioni?”
Suggerimento. Suggestionato. Soggiogato.
Perché la storia di un casuale incontro tra uno studente di letteratura italiana e la poesia di Endre Ady, sconosciuto ungherese, nel 1991, può, tranquillamente, anche riassumersi in mere tre parole. Anche perché stavolta la recensione per vari e svariati motivi e imposizioni non è possibile nei suoi canonici, consueti ed archetipici stilemi. Tutto ciò nasce dalla lettura (obbligatoria) per un esame di "Letterature comparate", su un testo, Armando Gnisci, "Il colore di Gaia". Azzurro",Carucci editore, 1989. Testo di per sé utopico, una ricerca di concordanze e discordanze fra le letterature del mondo, alla ricerca forse di una pietra filosofale. O di qualche magia cattedratica al sapor di re Mida.
Qui è solo una serie di sensazioni e qualche notizia. Perché certo che non si tratti né del primo né dell’ultimo caso di denuncia di brillante operazione per rimozione e cancellazione, per motivazioni ardue da poter sostenere oppure anche lontanamente spiegare. Per le notizie rimando alle forzatamente scarne note.
Poi.
Qui propongo qualche lettura e qualche annotazione a margine. Che si prendano come glosse, alla maniera degli antichi frati medievali, che in qualche modo, oscuri scrivani e forse solo per imposizione di fede, trascorrevano e trastullavano il proprio tempo copiando, senza però resistere alla demoniaca tentazione di lasciare una traccia. Perché questa lunga digressione mi piace scriverla come una chiosa. “Partiamo. Andiamo verso l’Autunno,
gracchiando, piangendo, inseguendoci,
due falchi dall’ala lenta.

L’estate ha già dei nuovi rapaci
Schioccano le ali dei nuovi falchi
Incrudeliscono le battaglie d’amore

Noi lasciamo l’estate, trasvoliamo scacciati,
ci fermiamo in qualche luogo dell’Autunno,
amorosi, con le piume arruffate

Sono le nostre ultime nozze:
ci strappiamo le carni a colpi di becco
e cadiamo sul fogliame d’autunno"

("Nozze di falchi sul fogliame secco")

Eccolo l’amore come un' arena, fatto di volatili eppur rapaci, che si consumano con forza a volte al di fuori del reciproco rispetto, una consumazione lenta ed inesorabile, mentre le stagioni passano, i cieli cambiano e gli amori continuano ad inseguirsi in base a folli dettami senza ragione né pietà. Potente, forse esageratamente drammatica, ma di forte impatto emotivo, molto guerresca e livida, come un’eterna tempesta che alcuni amori, o idee di amore, possono anche scegliere e delegare come propria rappresentazione.
Poi la caducità della vita, torna lo scorre del tempo, l’inasprirsi dei contrasti fra volere ed avere, oppure sentire e sentito, o quello più archetipico vivere ed esistere, fatto di scelte fra un carpe diem fino all’estremo oppure una lenta costruzione di fragili muraglie all’imperversare della casualità:
" Un minuto, e la vita mi bacia
Il mio corpo è una caldaia, lieta ardente
Ardono le donne, le case, le strade
I cuori, i sogni. Tutto arde
E tutto è immortale

Un minuto, e vengono piccoli demoni:
spengono le fiamme con lunghi ciuffi.
Viene il dubbio, viene un gran freddo.
Viene il fango e forse il ricordo
D’un paio di calzoni sdruciti"
(Solo un minuto)

Una lotta destinata alla sconfitta contro la mutevolezza e lo scorrere del tempo e degli stati d’animo e la parola pare una umile schiava volta solo a cristallizzare la sensazione di.
Perdersi. Lasciare. Non ritrovarsi.
Non ci è dato sapere se alcuni atteggiamenti così lessicalmente spinti allo stremo furono frutto di una personalità teatrale, o doppiogiochista, troppo poche ancor ora le conoscenze e troppo forti le evocazioni suggestive.
Sessualità certo, ma anche anche intensità lirica, senza struggimento che comunque appaga i romantici, qui siamo pur sempre nel Novecento, anche se in provincia della Letteratura divulgata.
Ancora l’amore. Ancora il fuoco, la carnalità, il consumo, il darsi-aversi ma finire. E poi la labilità umana, il resistere oppure lasciarsi al tutto, un vortice e la scelta che appartiene soltanto all’uomo: poca metafisica, siamo nel campo del carnale:
" Stiamo su una cima selvaggia noi due
Stiamo abbandonatie rigidi
Aggrappati l’uno all’altra, senza lacrime, lamenti, parole:
appena un tremito e cadiamo

Ci legano lacci di carne e sangue
finché stiamo così avvinghiati:
le nostre labbra livide e tremanti.
Finchè tu mi baci, non abbiamo parole:
ma se dici una parola, cadiamo"
(Stiamo su una cima selvaggia) 
Sembra che solo una prorompente e quasi eccessivamente accesa materia possa dare sostanza e linfa ad una comunicazione nella relazione amorosa: il resto pare affidato a vertiginose cadute negli abissi del.
Adolescenziale o monodimensionale forse, come postera interpretazione, ma certo che la forza che emana sembra tatuare gli occhi alla semplice lettura con un marchio di fuoco e fatuità. Però credo sia giusto sottolineare che la poesia a volte non deve esser un semplice mondo circoscritto, un porre paletti sulla base di musicalità e significato delle parole. A volte la poesia può essere un sussurro all’orecchio di mondi e o sensazioni probabili, ma non impossibili, oppure la eco di una musica suadente che ammalia, come dovette forse essere nella fantasia il canto delle sirene per l’Ulisse omerico in preda a passate e future tempeste.
E il poeta Ady ( e probabilmente anche l’uomo che fu,ma non può rispondermi sul quesito) a volte decide l’abbandono con lucida, pazza, a volte egoistica consapevolezza:
" Io sono il parente della morte.
Amo l’amore morente
Amo baciare
Chi se ne va

….
Amo coloro che partono
Che piangono e si destano
E, nei freddi mattini brinati,
i campi

….
Amo i delusi, gl’infermi
Coloro che sono fermi
Gli increduli, i tristi:
amo il mondo"

Visione apocalittica e forse anche questa eccessivamente decadentista-nichilista, ma che per quel che se ne legge, una dichiarazione di poetica, stanca forse, ma che riserva sorprese ad ogni verso (gli increduli ed i tristi sono antitesi semanticamente forti per una connotazione come quella evidenziata).
E forse profetico fu il poeta, nella sua visione tragica:

"Nemmeno un frusciare tradisca
Ciò che ha già nascosto l’anima mia:
senza vita se ne è andato qualcuno,
che ne è andato uno che fu di qui
Di altri non fui, neppure di me stesso,
la fredda nullità è mia sposa.
Non ho il diritto di lasciare ricordi,
ne ho il diritto di ricordare

Come una domanda dimenticata
E senza risposta, io cada nella pace:
che non voglia più essere, se fui:
e, se fui, rimanga segreto a tutti"
(La partenza pacifica)


Oppure:
"Le stelle cadenti mi hanno illuminato,
mandragore da poco stordito
e, in luogo della vita, non ho avuto che ore"
(Ore in vece di vita)

Così fu, credo, così è stato. Un segreto, però che lascia qualche vaga inquieta certezza e qualche parola che in certi momenti, in eventuali momenti, può anche divenire una bussola. Una bussola che, sia detto per inciso, non detta coordinate geografiche, ma solo indica terra del pensiero e dell’emozione da cui, eventualmente ripartire.

Insomma la storia di parole che mi hanno a suo tempo vinto e convinto. Come solo la poesia sa e può fare.
BREVI NOTE

Endre Ady (Ermindszent, 22 novembre 1877 – Budapest, 27 gennaio 1919) fu essenzialmente poeta, ungherese, in una futura nazione che andava aprendosi all’Occidente e che vedeva sfaldarsi lentamente e senza sosta l’impero asburgico di cui faceva parte. Nato da una famiglia andata sul lastrico, si avvicinò alla giusta età alla rivista Nyugat, considerata la prima rivista in quei luoghi a svecchiare la letteratura indigena ed anche il senso estetico fino ad allora dominante. Nel sito citato si possono leggere le opere pubblicate in lingua indigena.

Ancora attualmente è poeta essenzialmente di interesse ungherese e talvolta degno di interesse inglese. Assai scarsa la sua notorietà in Italia.

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