26 novembre 2015

Un uomo (Oriana Fallaci)

Succedono cose nel mondo, anche oggi. Son successe e chissà quante altre bisognerà vederne. E poi leggerle, subirle, magari infangare il buon umore ed avere un moto di rabbia, indignazione, dolore. E' la notte tra il 30 di aprile ed il 1º maggio 1976. Siamo a Glyfada, luogo natale nei dintorni di Atene, di Alexos Panagulis, martire e aspirante carnefice del regime totalitario instaurato dai militari in Grecia fra il 1967 ed il 1974. Egli rimane vittima di un incidente automobilistico alquanto surreale. Era un personaggio scomodo, fuori dagli schemi, condannato a morte per un attentato nel 1968 al presidente fantoccio della dittatura, Papadopulos, poi graziato e rinchiuso in carcere di isolamento, con un regime di detenzione durissimo, cui lui reagirà con ferma intransigenza e una certa dose di pazzia mista ad eroismo. Con la pseudo caduta della Giunta militare, sarà poi amnistiato e successivamente eletto deputato per un pugno di voti.

Un ribelle. Con la R maiuscola. Con tutte le controindicazioni e contromisure del caso. In quei giorni prima della morte Alexos si era attivato per denudare le acclarate ed ovvie connivenze e prosecuzioni del regime nei meandri della appena neonata democrazia greca. Le indagini ufficiali attribuiranno allo stesso stesso Panagulis, la responsabilità dell 'incidente mortale. Perizie di matrice italiana e questo libro di cui voglio parlare indicheranno nello speronamento di due automobili di grossa cilindrata la causa del tragico evento.
Alexos Panagulis che all'epoca non aveva ancora 37 anni, divenne, da defunto, emblema e simbolo delle efferate storture che qualunque dittatura di qualsiasi colore porta. Un mito dell'insurrezionalismo a carattere prettamente anarcoide e libertario tragicamente diffuso nell'Europa occidentale in quegli anni. Anarchico, ribelle, “contro”. Il suo destino era quello di essere sventolato come una bandiera, quando poi, da vivo, fu perlopiù osteggiato ed ignorato, specie dopo la sua liberazione a carattere meramente opportunistico. Sic transit "vanagloria" mundi.
Fin qui l'aridità della cronaca, i fatti duri e puri, forse. La Storia. O quello che comunemente viene inteso per essa.
Ma “Un uomo”, uscito nel 1979 e divenuto in breve un best seller mondiale, non è meramente l'arida trasposizione dei fatti sopra narrati. Anzi, tutt'altro. E' un reiterato, forse complesso, sicuramente affabulato libello in nome di un amore o magari di qualcosa che ci somigliava tanto, molto, troppo. Sapete, quella famosa freccia che trafigge il cuore a cura del dio Cupido, che cupido a volte può essere. Il cuore batte e si dilata ed allora.
Perché soprattutto si digressiona e ci si raggrinzisce sulla relazione che fulminea avvampò fra Oriana Fallaci,autrice, giornalista ed aspirante scrittrice, morta nel 2006, e Panagulis. Ella negli anni dimostrò una prolificità quasi spontanea e logorroica, facendo dello destabilizzante e dello sconveniente una sorta di regola di vita, prescindendo oggi, io, da giudizi sulle sue asserzioni a volte francamente demoralizzanti e discutibili, seppure nessuno voglia negare la sua capacità di esserci. Al massimo si discute sul come esserci.
Oriana lo conobbe nel 1973, all'indomani della scarcerazione. Aveva allora 43 anni ed era sicuramente una donna sugli altari della cronaca e di certo una delle giornaliste più coraggiose sullo scenario mondiale. Sempre in prima linea, nei luoghi oltre che esotici anche molto caldi. Vietanam, il Messico rivoluzionario, gli Stati uniti fra Kennedy, Luther King e la guerra fredda. Sulla notizia, a divorare sensazioni e notizie, a cercare di darne una propria versione, con i rischi del caso, compresa quella pallottola ricevuta in Messico.
I due avviarono un rapporto prima romantico, poi burrascoso e conflittuale, poi pacifico poi fino alla fine turbolento e schizofrenico, una sorta di reciproca schiavitù da cui nessuno dei due poteva uscire immacolato o vincitore. Come alcuni tipi di rapporto che alla luce delle parole e dell'esperienza non sono amore, ma due anime impaginate in una sorta di romanzo su come un uomo e una donna non devono stare assieme eppure ci stanno. L'amore.
Quella tensione, quella scintilla che accende il fuoco, che riscalda la sera, addolcisce il giorno e insomma tutto è primavera. No. Non sempre è così, non per forza. Perché al di là di crepuscolarismi eventualmente irrorati di romanticismo, mi sia concesso, il ritratto che esce dal rapporto amoroso è disastroso, non amorevole, quasi mai “adulto”, ma incosciente con qualche tono quasi fiabesco di favola però non a lieto fine, sempre innervato da un sentimento che non è di parità ma semmai di compassione, nella peggiore accezione che neanche il Kundera dell'Insostenibile leggerezza dell'essere poteva mettere su pagina.
La “nostra” Oriana infatti, si perde e finisce nel raccontare sé stessa più che l'altro. Questo nel suo predicare il verbo e l' ascesi, l'alba e il prefigurato tramonto di tale dionisiaco eroe, nel cercare di rivelare aspetti sconosciuti o eventualmente non piccanti ma per certi versi telenovelici di Alexos , nel suo vedere , ricordare, rendere pubblico il rapporto con la realtà di un uomo come noi eppure così diverso.
Un testo che per certi versi annaspa, per altri soffoca in alcuni casi viene salvato con un intervento terapeutico del guizzo giornalistico. Il libro è sintomo di una chimica confusione, di una entropia che poi diventa un fascino molecolare per farsi del male, a sé stessi prima che agli altri. Benché tra le pagine sia baroccamente ribadito che Panagulis voleva una biografia e che fosse una sorta di ancestrale e nichilista aùgure del suo nulla, su di lui, il risultato finale è sconcertante ed alquanto confuso, così come di il ritratto di chi gli stava accanto. Un bambino, certo dotato, ma puerilmente proteso a ciò che non c'è, senza la minima indole a mediare, non per forza a compromessi o a compromettersi, incapace di tenere amicizie o benevolenze, inabile a concludere o sconcludere, bravo ad iniziare ed assolutamente incapace a finire. Un'idiota insomma, brutto e terribilmente fascinoso, forte e indistruttibile a distruggersi, invivibile.
In quasi 500 fittissime pagine, il bandolo della matassa è spesso sfuggente, liquido, lascivo. La storia torna, ritorna, si avvolge e riavvolge per poi inabissarsi in assurde autoreferenziali reiterazioni. La Fallaci denota uno voglia incommensurabile di parlare di sé, dei suoi stati d'animo, servendosi di uno stratagemma, il Panagulis a quel tempo ormai nel regno dei cieli. Una quasi necessità di una confessione mai chiesta e non sconfessabile, una dolorosa presa di posizione che però può alla fine anche irritare, oltre che irretire, soprattutto chi legge innocente ed ignorante. Troppe divagazioni senza un construens, troppe ondivaghe le compenetrazioni, troppo tutto e spesso niente, perché se leggo un romanzo voglio una storia, se leggo un saggio voglio una analisi, se leggo una autobiografia voglio fatti. Se leggo questo libro rimango con troppi perché e un senso di caotica, sperduta e desertica confusione. Il giudizio è senza appello, forse dettato da necessità. Il come, dove, quando spesso dimenticati, un po' di allergia alla prosopopea fuori luogo, una certo fastidio all' insolente incompatibilità con la struttura narrativa che il libro denuncia, all'egocentrismo non maturato dalla forma, assolutamente troppa, debordante, fuorviante. Insomma.
Questo libro direi, nonostante il giudizio negativo, va letto. E' una sorta di inossidabile, indicibile, incredibile documento delle profonde contraddizioni che animarono e poi spensero il movimentismo culturale, ideologico e sociologico dal 1968 all'inizio degli anni Ottanta. La bocciatura è stilistica e per certi versi contenutistica. Però credo che ognuno che voglia sapere e conoscere, debba confrontarsi. A mio parere il tutto poteva e doveva essere compattato e meglio indirizzato, comunicato, detto. Resta il fatto che l'intera operazione editoriale, con le differenze di editore, epoca, autore, è la stessa condotta in tempi memorabili e recenti con “Gomorra” di Saviano. Molte verità, molta attualità, una non sconfessabile voglia di essere letterari quando al massimo si è testimoni o forse giornalisti. Un desiderio di recitare una parte autoriale senza averne né lo spessore né l'attualità storica, seppure il proprio agire reca anche drammaticamente risvolti personali tutt'altro che piacevoli. E' difficile scegliere fra fare semplicemente il giornalista o lo scrittore, come è arduo diventare eroi. Ai posteri, come sempre, l'eventuale sentenza.
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E non me ne voglia il buon Troisi se come titolo cito uno dei film in cui lui ha recitato. C'azzeccava come non mai e la pellicola in questione a mio parere rimane una delle migliori del napoletano. Come un calesse.


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