Ebola è una malattia ma anche una entità diabolica: annienta chiunque, i soldati che vigilano, i medici che curano. E poi c’è polvere sui vestiti, scarseggiano medicinali, ma un dottore non può arrendersi, è la sua missione. “Ebola impone solitudini e disciplina, pensieri, ordine”. Una battaglia insomma, forse una guerra, chissà se ci sono vinti. O vincitori.
Come racconti, che dovrebbero dirci qualcosa che non andrebbe dimenticato, rimosso. Storie e vite finite sui giornali dice il
sottotitolo del testo, come a dire che si parla (si scrive) ma poi verba volant
e scripta non manent., nell'era social, dove oltre i 150 caratteri sei prolisso. Paesaggi borderline, sfruttamenti, debolezze oppure
semplicemente destini che dovevano andare male, che erano destinati a finire
così. Una volta il giornalismo di inchiesta aveva questa grande forza,
denunciare misfatti, sollevare coscienze. E comunque era capace di cercare di
ristabilire se non la verità assoluta, perlomeno un racconto incisivo e
documentato dei fatti. In un mondo globalizzato le verità sono molteplici,
specchio di moltitudini di accadimenti e punti di vista. La scelta degli autori
di raccontare cronache attualissime e disparate, registrate in ogni angolo del
mondo, è ambiziosa quanto suggestiva. Figuriamoci poi se la via scelta per la
narrazione è incanalare emozioni e magari informazioni nella struttura di brevi
monologhi teatrali: un esperimento non solo interessante ma condotto con piglio
sicuro e stile lessicale appropriato, molto di impatto. Certo bombardare lo
spettatore con un unico spettacolo costruito da situazioni così differenti e
variegate forse rischia di non ottenere l’effetto desiderato. Anche se siamo
nell’epoca della sintesi radicalizzata e della desertificazione dei contenuti e
degli approfondimenti, un’epoca in cui la quantità e la brevità delle
informazioni è più gradita – se non più importante – della qualità.*
N.B.
*Originariamente pubblicata su Mangialibri.com
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