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“Non prendere le cose sul serio è il mio unico scudo, la fortezza che ti costruisci da bambino con i cuscini del divano”. Comportarsi così a sette anni ha un senso e tutto sommato è necessario, ma a quaranta anni – quanti ne ha il protagonista del romanzo – diventa sindrome di Peter Pan. Li hanno chiamati “bamboccioni” e forse non avevano torto tutto sommato, ma erano figli dei tempi che vivevano, loro malgrado prede della precarietà lavorativa e del mutamento radicale delle convenzioni e convinzioni sociali. D’altronde i figli hanno la necessità improba di imparare di stare al mondo (o addirittura a vivere, a volte),
i genitori l’ardua responsabilità di dar loro almeno una pacca sulla spalla, se non proprio un insegnamento. Non banalizza, Lorenzo Marone, anzi riesce a rendere fluida e gradevole una trama abbastanza trita e ritrita, con improvvise illuminazioni scrittorie che mi hanno ricordato il Sandro Veronesi dei primi tempi , che però aveva il dono di inventarsi narrazioni basate su situazioni surreali, anche se di struttura esile. Capire la vita è una mission che l’uomo si è imposto, a cui ha trovato delle risposte che però si sono rivelate micidiali boomerang, tornati indietro in forma di domanda. Ben vengano allora vite e storie come quelle di Andrea e suo padre, imperfetti quanto basta a somigliarci per davvero. Il tutto condito da un po’ di azioni fantozziane e inettitudine congenita, per rimescolare con grazia il plot quanto basta. Un viaggio nel passato che lo proietta nel futuro. Formazione sì, ma passati i 40 e niente sembra avere consapevolezza e maturità. Insomma semplice ma efficace, con un tocco personale.
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