Una vicenda,
ancor oggi capace di suscitare qualche scalpore e "chiacchiericci"
post mortem, quella del ritrovamento del cadavere di Giangiacomo Feltrinelli nel
1972, ha indubbiamente spunti e stimoli di interesse e riflessione che esulano
dal gossip vampiresco affamato di "cronachite" stucchevole e riattualizzano
dibattiti di più ampi portata e di più vasta portata.
"L'editore" è testo dalla struttura spiccatamente sperimentale, (ipertestuale, si definiva una volta) come d'altronde tutti i romanzi di Balestrini, non a caso poeta e animatore di quel movimento che viene comunemente denominato la "Neoavanguardia", esploso letteralmente negli anni sessanta e poi successivamente imploso, sfilacciatosi, disintegrato e perso in mille rivoli per le contraddizioni teoriche e pratiche in esso insite.
La letteratura se intesa e vissuta in ogni aspetto è utopia e contraddizione. Se diviene prassi strumentale, artificio di provocazione, retrocede o comunque diviene gossip e tendenza, moda e modo, viene a tradire alcuni suoi assiomi portanti, il suo dna: arte, comunicazione, memoria.
"L'editore" è composto dalla narrazione di protagonisti di quegli anni che decidono, negli anni ottanta, di fare un film sulla vicenda, cercando attraverso essa di raccontare una generazione. In più la trama è riecheggiata e contornata da riporti testuali di un testo realmente esistito e di ben altro tenore e contenuto, "Sotto il vulcano", di Malcolm Lowry, ovviamente editato dalla medesima casa editrice.
Troppa carne al fuoco, chicche solo per intenditori, una difficile fruibilità. La pretesa avanguardista (persistente e continua in Balestrini) di utilizzare una costruzione a più livelli, con uno schema senza punto di riferimento, con una plurivocità narrativa atta a non far identificare chi,come quando parla, per rendere l'idea di un parlottare collettivo ha avuto, a mio modo di vedere, in Balestrini stesso, esiti più convincenti, compatti, esteticamente compiuti (i romanzi "Gli invisibili", "Vogliamo tutto").
E' il tema, più che l'intreccio o la effettiva resa narrativa, dunque, a destare interesse, e potremmo anche accettare che la struttura a più voci, con rapide incursioni di spezzoni di telegiornali et similia, eccessivamente reiterate tuttavia, possa avere un suo impatto emotivo o empatico. A volte il fine giustifica mezzi, in letteratura. Ma il risultato complessivo lascia un sapore di incompiuto, come forse tutta la storia di quegli anni.
Per inciso l'editore Feltrinelli, quello che tutti conosco per i tascabili ed una politica editoriale di grande impatto ed effetto fin dagli albori, (gli amanti della lettura sanno che si devono a lui incredibili casi editoriali quali la pubblicazione de "Il gattopardo" o "Il Dottor Zivago") venne ritrovato cadavere da due contadini nel marzo di quell'anno nei pressi di Segrate, ai piedi di un traliccio dell'alta tensione, dilaniato da una bomba che, si pensò, lo stesso tentava di collocare per sabotare l'illuminazione e l'elettricità in mezza Milano. Voleva spegnere la luce, forse. O semplicemente portare il buio, forse. Che ne sappiamo, noi, che non c'eravamo. Vicenda e cronaca di quegli anni insegnano che completa chiarezza non fu fatta mai, anche per la discutibile capacita camaleontica del personaggio e per la sua tendenza a sovrapporre realtà e fantasia propagandistica, in qualunque episodio, drammatico o di costume che fosse.
Rimane che il periodo storico che va dal 1968 all'inizio degli anni Ottanta non solo è stato il genitore (sociologico, non biologico) bifronte ed anfibio della generazione dello scrivente, ma ha avuto episodi e fatti, spesso di connotazione tragica, ancora vivi nella memoria e nella storia attuale di questo paese.
Il fatto che poi in questo romanzo del 1989 a scriverne sia Nanni Balestrini poteva essere un'occasione per approfondire una vicenda emblematica e lacerante in quei nebulosi ma a loro modo "fondamentali" anni Settanta.
Balestrini se non fu uno stretto collaboratore, conobbe e frequentò, per ragioni politiche e lavorative l'editore in questione (lavorò nella casa editrice dal 1961, per abbandonarla all'indomani della morte di Feltrinelli). Tra le altre cose fu peraltro anche perseguito e poi assolto dalla giustizia italiana, fuggito in Francia nell'aprile 1979, poiché come numerosi esponenti di Autonomia Operaia venne incriminato per associazione sovversiva, banda armata e partecipazione a 19 omicidi tra cui quello di Aldo Moro, per essere poi scagionato nel 1984. Ma il romanzo poteva e doveva essere più incisivo.
Al di là delle effettive considerazioni prettamente letterarie ordunque, il testo in questione, dalla natura essenzialmente documentaristica più che indagine conoscitiva, mi sembra comunque un ottimo punto di partenza sia per seminare germi di discussione, sia per prendere atto di una serie di importanti considerazioni. Le pagine più illuminanti e allo stesso tempo coinvolgenti sono quelle dove le sensazioni di come certi ambienti reagirono, allora, alla notizia del fatto. E poi il ritratto che di Feltrinelli fa Balestrini, che pur disseminando dubbi e messaggi più che subliminali di carattere capzioso e politicizzato, con una meticolosa pratica del contradditorio, arriva a delineare una figurazione dell'editore essenzialmente da me condivisibile, dall'aspetto reale e realistico e dai risvolti tutto sommato impietosi.
L'uomo viene identificato per quello che forse era: un rivoluzionario velleitario, che probabilmente espiava chissà quali conflitti interiori, derivati dalla sua estrazione sociale, tutto teso a placare se stesso più che a teorizzare e mettere in pratica seriamente rivoluzioni, controrivoluzioni, resistenze varie.
Quel che colpisce di più il lettore già avvezzo a Balestrini ed in generale a tutta quella letteratura definita "spontaneista" che imperversò nel decennio dei Settanta, spesso confluendo guarda caso nella collana Feltrinelli dei "Franchi narratori", è un senso di forte autocritica, un certo alone di sconfitta, di perdita irrimediabile, di implosione di un'illusione. Ed oltre a vaghe e retoriche accuse al sistema, la ricerca minuziosa all'interno del proprio io, personale o collettivo, per individuare i cardini attorno a cui è ruotata la sconfitta ed è svanito l'ideale come se fosse una fragile e usurabile pratica di moda ma senza nerbo né sostanza.
Mi piace sottolineare come anche uno dei più irriducibili fautori e cultori del "movimentismo" degli anni Settanta, quale l'autore in questione, abbia, con ritardo, perlomeno cominciato a dubitare senza paranoie versus cospirazione, sulla effettiva incisività di talune azioni e ragionamenti, come altri protagonisti in letteratura e non solo di quegli anni.
Potremmo ipotizzare il crepuscolo di una intera generazione che aveva creduto e poi dovette ricredersi, dando linfa e vigore anche ai passati eccessi, riletti ora con più consapevole maturità ed una pratica scrittoria incisiva perché mediata ma non per questo dagli esiti artefatti.
*POSTILLA "Anche liberi va bene"
Un giorno forse ci sarà la libertà. E' una bella frase partendo dal presupposto che spesso, almeno io, ci si sente un po' prigionieri, e viene da sé che viene facile bramare qualche evasione. Tanto per dire "coito, ergo sum".
Si lo so, ritorna quasi uno pseudo eterno dilemma interiore. Quello che, vi dirò, mi vive dentro e comunque s'annida in molti della mia generazione che hanno letto libri e ascoltato musica, quella "giusta" per intenderci. Quelli che il mondo che hanno trovato lo hanno bocciato quasi subito anche se poi hanno cercato qualche promozione in zona Cesarini per svoltare un lavoro o una posizione o comunque una sussistenza che assomiglia all'esistenza. Il dilemma è il Sessantotto di chi non c'era, come me, sia chiaro. E anche successivi anni a discendere. Io ho un Sessantotto dentro che mi fa esplodere. E allora magari ricerco ragioni, cause, effetti, fiero della mia non appartenenza politica a nessuno, perché ormai, ritengo, nel bene o nel male, di essere un tradito. non un traditore, sia chiaro.
Vivo il 2014 con sostanziale rabbia ed indifferenza e penso ai mie anni giovanili. Ai miei desideri. A quelle bandiere magari di carta o cartone che qualcuno aveva pure sventolato prima di me oppure le fotografie forse fotomontaggio che osservavo curioso ed arrabbiato e sognavo di urlare "la storia siamo noi", ma tanto poi oggi la scrivono altri e quindi eccoci. Siamo noi, non siamo gli stessi, che fine avrà fatto l'amico di Venditti in "Compagno di scuola" che fine avrà fatto il mio compagno di banco e di bando (di concorso).
Che.
Fine.
La fine. Una di quelle cose che i politici attempati e in qualche caso decrepiti chiamano genericamente attentato alle istituzioni, ma noi, quelli nati dopo, quelli del "Monclair" e del "Marina yachting", lo sappiamo come stanno le cose che.
Se vogliamo, ovvio.
"L'editore" è testo dalla struttura spiccatamente sperimentale, (ipertestuale, si definiva una volta) come d'altronde tutti i romanzi di Balestrini, non a caso poeta e animatore di quel movimento che viene comunemente denominato la "Neoavanguardia", esploso letteralmente negli anni sessanta e poi successivamente imploso, sfilacciatosi, disintegrato e perso in mille rivoli per le contraddizioni teoriche e pratiche in esso insite.
La letteratura se intesa e vissuta in ogni aspetto è utopia e contraddizione. Se diviene prassi strumentale, artificio di provocazione, retrocede o comunque diviene gossip e tendenza, moda e modo, viene a tradire alcuni suoi assiomi portanti, il suo dna: arte, comunicazione, memoria.
"L'editore" è composto dalla narrazione di protagonisti di quegli anni che decidono, negli anni ottanta, di fare un film sulla vicenda, cercando attraverso essa di raccontare una generazione. In più la trama è riecheggiata e contornata da riporti testuali di un testo realmente esistito e di ben altro tenore e contenuto, "Sotto il vulcano", di Malcolm Lowry, ovviamente editato dalla medesima casa editrice.
Troppa carne al fuoco, chicche solo per intenditori, una difficile fruibilità. La pretesa avanguardista (persistente e continua in Balestrini) di utilizzare una costruzione a più livelli, con uno schema senza punto di riferimento, con una plurivocità narrativa atta a non far identificare chi,come quando parla, per rendere l'idea di un parlottare collettivo ha avuto, a mio modo di vedere, in Balestrini stesso, esiti più convincenti, compatti, esteticamente compiuti (i romanzi "Gli invisibili", "Vogliamo tutto").
E' il tema, più che l'intreccio o la effettiva resa narrativa, dunque, a destare interesse, e potremmo anche accettare che la struttura a più voci, con rapide incursioni di spezzoni di telegiornali et similia, eccessivamente reiterate tuttavia, possa avere un suo impatto emotivo o empatico. A volte il fine giustifica mezzi, in letteratura. Ma il risultato complessivo lascia un sapore di incompiuto, come forse tutta la storia di quegli anni.
Per inciso l'editore Feltrinelli, quello che tutti conosco per i tascabili ed una politica editoriale di grande impatto ed effetto fin dagli albori, (gli amanti della lettura sanno che si devono a lui incredibili casi editoriali quali la pubblicazione de "Il gattopardo" o "Il Dottor Zivago") venne ritrovato cadavere da due contadini nel marzo di quell'anno nei pressi di Segrate, ai piedi di un traliccio dell'alta tensione, dilaniato da una bomba che, si pensò, lo stesso tentava di collocare per sabotare l'illuminazione e l'elettricità in mezza Milano. Voleva spegnere la luce, forse. O semplicemente portare il buio, forse. Che ne sappiamo, noi, che non c'eravamo. Vicenda e cronaca di quegli anni insegnano che completa chiarezza non fu fatta mai, anche per la discutibile capacita camaleontica del personaggio e per la sua tendenza a sovrapporre realtà e fantasia propagandistica, in qualunque episodio, drammatico o di costume che fosse.
Rimane che il periodo storico che va dal 1968 all'inizio degli anni Ottanta non solo è stato il genitore (sociologico, non biologico) bifronte ed anfibio della generazione dello scrivente, ma ha avuto episodi e fatti, spesso di connotazione tragica, ancora vivi nella memoria e nella storia attuale di questo paese.
Il fatto che poi in questo romanzo del 1989 a scriverne sia Nanni Balestrini poteva essere un'occasione per approfondire una vicenda emblematica e lacerante in quei nebulosi ma a loro modo "fondamentali" anni Settanta.
Balestrini se non fu uno stretto collaboratore, conobbe e frequentò, per ragioni politiche e lavorative l'editore in questione (lavorò nella casa editrice dal 1961, per abbandonarla all'indomani della morte di Feltrinelli). Tra le altre cose fu peraltro anche perseguito e poi assolto dalla giustizia italiana, fuggito in Francia nell'aprile 1979, poiché come numerosi esponenti di Autonomia Operaia venne incriminato per associazione sovversiva, banda armata e partecipazione a 19 omicidi tra cui quello di Aldo Moro, per essere poi scagionato nel 1984. Ma il romanzo poteva e doveva essere più incisivo.
Al di là delle effettive considerazioni prettamente letterarie ordunque, il testo in questione, dalla natura essenzialmente documentaristica più che indagine conoscitiva, mi sembra comunque un ottimo punto di partenza sia per seminare germi di discussione, sia per prendere atto di una serie di importanti considerazioni. Le pagine più illuminanti e allo stesso tempo coinvolgenti sono quelle dove le sensazioni di come certi ambienti reagirono, allora, alla notizia del fatto. E poi il ritratto che di Feltrinelli fa Balestrini, che pur disseminando dubbi e messaggi più che subliminali di carattere capzioso e politicizzato, con una meticolosa pratica del contradditorio, arriva a delineare una figurazione dell'editore essenzialmente da me condivisibile, dall'aspetto reale e realistico e dai risvolti tutto sommato impietosi.
L'uomo viene identificato per quello che forse era: un rivoluzionario velleitario, che probabilmente espiava chissà quali conflitti interiori, derivati dalla sua estrazione sociale, tutto teso a placare se stesso più che a teorizzare e mettere in pratica seriamente rivoluzioni, controrivoluzioni, resistenze varie.
Quel che colpisce di più il lettore già avvezzo a Balestrini ed in generale a tutta quella letteratura definita "spontaneista" che imperversò nel decennio dei Settanta, spesso confluendo guarda caso nella collana Feltrinelli dei "Franchi narratori", è un senso di forte autocritica, un certo alone di sconfitta, di perdita irrimediabile, di implosione di un'illusione. Ed oltre a vaghe e retoriche accuse al sistema, la ricerca minuziosa all'interno del proprio io, personale o collettivo, per individuare i cardini attorno a cui è ruotata la sconfitta ed è svanito l'ideale come se fosse una fragile e usurabile pratica di moda ma senza nerbo né sostanza.
Mi piace sottolineare come anche uno dei più irriducibili fautori e cultori del "movimentismo" degli anni Settanta, quale l'autore in questione, abbia, con ritardo, perlomeno cominciato a dubitare senza paranoie versus cospirazione, sulla effettiva incisività di talune azioni e ragionamenti, come altri protagonisti in letteratura e non solo di quegli anni.
Potremmo ipotizzare il crepuscolo di una intera generazione che aveva creduto e poi dovette ricredersi, dando linfa e vigore anche ai passati eccessi, riletti ora con più consapevole maturità ed una pratica scrittoria incisiva perché mediata ma non per questo dagli esiti artefatti.
*POSTILLA "Anche liberi va bene"
Un giorno forse ci sarà la libertà. E' una bella frase partendo dal presupposto che spesso, almeno io, ci si sente un po' prigionieri, e viene da sé che viene facile bramare qualche evasione. Tanto per dire "coito, ergo sum".
Si lo so, ritorna quasi uno pseudo eterno dilemma interiore. Quello che, vi dirò, mi vive dentro e comunque s'annida in molti della mia generazione che hanno letto libri e ascoltato musica, quella "giusta" per intenderci. Quelli che il mondo che hanno trovato lo hanno bocciato quasi subito anche se poi hanno cercato qualche promozione in zona Cesarini per svoltare un lavoro o una posizione o comunque una sussistenza che assomiglia all'esistenza. Il dilemma è il Sessantotto di chi non c'era, come me, sia chiaro. E anche successivi anni a discendere. Io ho un Sessantotto dentro che mi fa esplodere. E allora magari ricerco ragioni, cause, effetti, fiero della mia non appartenenza politica a nessuno, perché ormai, ritengo, nel bene o nel male, di essere un tradito. non un traditore, sia chiaro.
Vivo il 2014 con sostanziale rabbia ed indifferenza e penso ai mie anni giovanili. Ai miei desideri. A quelle bandiere magari di carta o cartone che qualcuno aveva pure sventolato prima di me oppure le fotografie forse fotomontaggio che osservavo curioso ed arrabbiato e sognavo di urlare "la storia siamo noi", ma tanto poi oggi la scrivono altri e quindi eccoci. Siamo noi, non siamo gli stessi, che fine avrà fatto l'amico di Venditti in "Compagno di scuola" che fine avrà fatto il mio compagno di banco e di bando (di concorso).
Che.
Fine.
La fine. Una di quelle cose che i politici attempati e in qualche caso decrepiti chiamano genericamente attentato alle istituzioni, ma noi, quelli nati dopo, quelli del "Monclair" e del "Marina yachting", lo sappiamo come stanno le cose che.
Se vogliamo, ovvio.
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