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"Non mi interessava
fare carriera, stritolato sotto vuoto spinto da un meccanismo costruito su
misura fuori misura per me. Non era la fatica a spaventarmi. Avevo paura di
scaraventarmi da solo in una prigione per poi gettarne le chiavi con le mie
stesse mani, come accadeva nei sogni” Walter parla, urla e poi, come a tanti
altri, gli finisce la voce. Walter è nella sua città, quasi assorbito,
invischiato da questa lucida impassibilità di Torino, vorrebbe ma non può,
potrebbe ma non vuole. Dimenticato ed inesistente, anche se si sente vivo e
vuole vivere, magari alla sua maniera e perseguendo (e perseguitando talvolta)
qualche suo ideale. Walter pensa, si specchia ed è specchiato, vede gente, fa
cose, ma rimane sempre un certo sottofondo di solitudine suonato come sempre
dall'apparato della società, dai costumi imperanti, dall'ordine precostituito,
da ciò che esiste e che bisogna se non accettare, subire, come, ad esempio, le
canzoni dei Pooh, mentre si amano i Ramones ed i Sex Pistols, non nei connotati
politici ma negli aspetti esistenziali che vibrano nella loro musica. Si
avverte, è vero, un clima epocale, tra il crollo del muro di Berlino e
l’imperversare di Tangentopoli, ci si aspetta sempre qualcosa e poi invece
niente. Non succede nulla. Anzi. Qualcosa si ripete, come se ci fosse un eterna
storia individuale già scritta. Walter è un neodiplomato, vive agli inizi degli
anni novanta, come tanti di noi, dove tutto sembra poter riprendere, dove tante
cose sembrano dover morire, dove ci si illude che. Una generazione segnata,
Walter ne è parte integrante. Ma poi insomma eccoci qui. E in Walter ci
rispecchiamo e diciamo eccolo qua, cosa mancava. E non vogliamo nemmeno più
arrabbiarci, è andata così, ormai e nessuno può farci niente. Neanche se
magari. Nemmeno se forse.
"Tutti giù per
terra" (1994) è un romanzo che chiude gli anni Ottanta. Una storia scritta
da un mio quasi coetaneo, anzi magari un fratello maggiore, su un decennio che
ha avuto comunque il ruolo e la funzione di spartiacque e che può, in un
ipotetico percorso assolutamente personale di letture, essere decrittato nei
suoi inizi da autori distanti come stile e come visione del mondo quali De
Carlo con “Treno di panna” e Tondelli con “Altri libertini”, incarnato nel suo
apogeo da Veronesi con “Gli sfiorati” e il pretenzioso "Rimini" ancora di Tondelli e concluso da questo testo, eventualmente con la
collaborazione di Silvia Ballestra e la sua dissacrante saga degli Antò .
E qui, in ogni caso, ci
si può impersonare con Walter, spaesato ma cinico, timido stupefatto ma anche
testardo e acido ma non farraginoso contestatore senza per questo irrigidirsi
in azioni quanto virulente tanto velleitarie, ma bensì facendosi icona di un
rifiuto fatto di piccole ribellioni quotidiane più che di epiche e impossibili
sovvertimenti di sapore eroico ma di scarsa incisività. Beh, certo andava
proprio così, perlomeno dalle mie parti, nella mia vita ed in quelle che avrei
potuto vivere allora, quando stavo per farmi ingoiare dalle fauci maleodoranti
dell'università per farmi poi digerire dagli attuali intestini burocratici e
putrescenti dove mi trovo.
“.. i ragazzi e la
ragazze della mia generazione scopavano giovanissimi. La maggioranza(…) ci dava
dentro col sesso orale fin dai sedici anni. A diciasette avevano il loro primo
rapporto completo. Molti a diciotto erano già nauseati dalla carne e passavano
alla coca. Io a ventuno ero ancora vergine”
Sì, diciamocelo, come
Walter, anche noi a nostro modo non riuscivamo a rivendicare il diritto ad una
verginità. In fondo eravamo tutti vergini, anche quelli che millantavano
impurità boccaccesche che avrebbero messo a disagio Rocco Siffredi. In fondo,
ed anche in superficie, erano anni fatti così. Un disperato bisogno di idee,
una confusa sensazione di pensarle, un sottile e beffardo sentimento che prima
era già successo molto, troppo e dunque tutto e niente stava succedendo e stava
per succedere. Sembrava tutto ad un passo, ogni cosa appariva a portata di
mano. Soprattutto a quelli come noi. Quelli che.
Quelli che facevano
filosofia o lettere in facoltà anonime e spersonalizzate, piene di gente che
passeggia, professori che si assentano, assistenti in nero che malpagati o non
pagati sgobbano, nessuna possibilità di dialogo, libri di testo costosissimi
anche in fotocopia sempre rigorosamente a firma del titolare di cattedra. Dove
erano, ti chiedevi, chissà dove, la cultura e la memoria che tu andavi a
ricercare, la coscienza e la conoscenza che tu desideravi, dopo anni liceali
passati a ribellarsi alla ribellione, ad inchinarsi alla spersonalizzazione
dell'educazione e a sfuggire, se potevi, all'omologazione fatta di
contestazione preconfezionata e alternatività omogeneizzata. Insomma tanti che
non stavano, a destra o sinistra o al centro, senza bussola, ma con i piedi per
terra.
Ebbene. Sì eravamo così.
Obiettori di coscienza perchè il militare era una farsa, abbandonati totalmente
dalle presunte ideologie di partito dei padri, che però nel frattempo tradivano
bandiere, famiglie ed ideali in nome della villeggiatura in montagna e dell’aumento
del debito pubblico, perché in fondo in quegli anni là, ormai trascorsi, la
bambagia aveva soffocato qualsiasi anelito a, ed il benessere sembrava non solo
una necessità, ma anche un diritto comunitario, mentre si sbriciolava un
sistema per generarne un altro più o meno catastroficamente uguale o
addirittura con risvolti peggiori.
I debiti letterari, poi,
mi sembrano evidenti. Come lo stesso autore non nasconde in una lontana
intervista ancora visibile ondine, le sue icone letterarie sono "Fiesta" di Hemingway "Il
grande Gatsby" di Fitzgerald o "Estinzione" di Bernhard o
"Berlin Alexanderplatz" di Doblin o "Fame" di Hamsun o
"America" di Kafka .
Mi sembra, a dovere di onestà
intellettuale, segnalare anche l’ormai inevitabile Salinger, che con il suo
Holden ha segnato, ha torto o ragione, un modo di fare ed essere,
narrativamente parlando, facendosi padre di qualcosa di cui probabilmente al
massimo lui stesso è figlio, ma diventando fratello di tante narratività, vuoi
per valore, vuoi per imperio editoriale. In ogni caso Hemingway e Bukowski sono
esplicitamente citati come letture di Walter.
Per inciso l’autore in
questione fu scoperto e lanciato nel 1990 da chi, allora, di letteratura
giovane probabilmente se ne intendeva, ovvero il compianto Pier Vittorio
Tondelli (Le sue prime prove letterarie sono stati alcuni racconti pubblicati
nell'ambito del progetto di scrittura giovanile "Under 25", curato da
Pier Vittorio Tondelli per Transeuropa Edizioni nel 1990), scomparso, come
noto, prematuramente.
Di questa fiducia
reciproca ne esiste una riservata e, alla luce dei fatti, pudica dedica, anche
nel romanzo in questione, quando Walter incontro lo scrittore (“Mi accorsi che
con gli occhiali assomigliava un sacco a
mio nonno. Aveva l’aria di essere una persona onesta e pulita. Non sembrava uno
scrittore di successo”). Un romanzo dunque frizzante, dallo stile personale e
accattivante e dai contenuti generazionali, solo in parte sminuito dallo
scrittore con il seguito, intitolato “Paso Doble”, debole nelle convinzioni ed
esile nei contenuti.
Di questo romanzo ci fu
poi una convincente e se volete
brillante versione filmica (1997, con Valerio Mastandrea), che mere
voci di corridoio segnalano Culicchia abbia apprezzato. Una pellicola di quelle
che convince, dal ritmo e dal taglio certo non tradizionali in senso indigeno
ma evidentemente ispirata a mio parere a modelli d’oltrefrontiera, ben girato,
discretamente interpretato,cinema fatto più di fotografia e montaggio che di
dialoghi e scenografia, insomma meritevole prova registica dello sceneggiatore
e documentarista Davide Ferrario, già noto all'ambiente, con le sue qualità di
sapore non avanguardistico ma sicuramente fuori dal solito consunto filone
registico italiano, un filmare
spiccatamente moderno, in bilico sempre fra pensiero ed azione (da qui il
ricorso alla voce narrante fuori campo per dettagliare lo scorrere delle
immagini), fra lo stupore ed il rancore, fra la fiaba e la realtà). Da
segnalare poi l'ottima, poiché corroborante e corrosiva, colonna sonora quasi tutta a cura dei CSI,
gruppo certo sui generis nel panorama italiano ma qui perfettamente a suo agio
nel musicheggiare i rapidi incisivi e taglienti segmenti filmici che compongono
la pellicola in questione, adeguati al ritmo ed ai contenuti, tutti innervati
su un senso di smarrimento e disorientamento apolitico coevo forte e chiaro,
ora, nei nostri cuori di allora.
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