A Peaceville tutto è perfetto. Ma proprio tutto, persino
l'acqua e l'aria sembrano meglio di ovunque. Un'oasi lontana dal rigurgitante
frastuono della modernità. Pace, serenità. La gente qui cerca la felicità, nel
silenzio dipinto di verde del bosco, dove il rumore è stato messo al bando. Qui
a Peaceville è forse un paradiso terrestre, dove si mangia bio e non c'è
litigio, nel buio della notte o alla luce del sole, niente pare possa poter
turbare o disturbare l'animo,troneggia e splende la reciproca armonia di ogni
essere umano lì vivente.
In questo Eden, senza che apparenti serpenti maligni vengano a sibilare
perturbanti tentazioni, in questo luogo ovattato, silente, insomma quasi morto
arriva come un uccello del malaugurio Uto Drodenberg, già di suo troppo
impigliato nei tipici dilemmi dilemmati della sua giovane età, diciannove anni
benedetto ragazzo, non buttarli con questa apparente aggressività, questa
ostentata indifferenza, questa malcelata insofferenza. Ma forse non è così
cattivo, il nostro. E' giovane. E peraltro, come se non bastasse, si porta
appresso un fardello pesante, il padre si è suicidato facendo scoppiare una
palazzina ed il fratello ha accusato Uto di essere la cagione del disastro.
D'altronde Caino uccise Abele, son cose che purtroppo succedono nelle migliori
famiglie, anche quelle bibliche.
Eccolo allora questo imberbe diciannovenne, vestito dark,
riservato, scontroso, reietto a qualsiasi formalismo.
Come può resistere a cotanto impeto la dolce famiglia che lo accoglie, tutta
casa, peace and love? puri come il cristallo, ma allora altrettanto fragili.
Sono in quattro, tipici, smodatamente tipici.
Capofamiglia degli ospitanti è Vittorio, pittore e spaccacuori, una figlia, la
insofferente e anoressica Nina. Il signor Foletti ha avuto tante donne nella
sua vita, ora ha ritrovato pace dei sensi nella spiritualità di Peaceville
assieme alla moglie Marianne, la vera infatuata del luogo, anche lei con un
figlio avuto da un altro, il sottomesso Jeff-Giuseppe.Si afafticano, si
prodigano, ciascuno trabocca animositàe buona volontà per redimere l'ultimo
venuto e fargli toccare con mano quel presunto benessere interiore di cui sono
emblemi.
Ma Uto sarà uno tsunami, una sorta di devastante scossa che ridarà linfa ed
energia a ciò che incautamente era stato messo con la forza in letargo. certe
aspirazioni, certi sentimenti non si possono ingabbiare, neanche Peaceville può
metterli a dormire, anzi. Il giovane Drodenberg con la sua ingenua, testarda
durezza incrinerà le false convenzioni, le anormali aspirazioni castranti, lui
è tutto il bene del male, la purezza della crudeltà e del cinismo anche se
eterogeneo, non maligno, semplicemente istantaneo, indomabile, istintivo.
Sarà con lui anche lo Swami, il guru immancabile di cotali conglomerati
sociali, il capo religioso della comunità, che sotto sotto magari non vedeva
l'ora che arrivasse una scintilla di vita in quella cenere di pseudo aspirazioni
che animano uomini e donne del luogo.Niente sarà come prima. Altro che pace.
Turbe, dubbi, gioie e dolori, insomma quel marasma marasmatico che si chiama
più o meno vita, esistenza, non fa differenza. Sarà il guru, nel suo eterno
distacco, a rafforzare lo slancio post adolescenziale di Uto. A volte quindi si
sconfina nel puro, semplice, deleterio misticismo, che non dà ciò che si
voleva. La purezza allora non diviene leggerezza ma un'oppressione, la vita
rimane fatta di istanti, le tentazioni sono più forti e numerose dei tentativi,
possibili, passibili o passabili che siano.
Ricorda vagamente la trama di "Teorema", il film di Pasolini molto
discusso, anche se Pier Paolo aveva fini politici, mentre qui si intravedono
solo intenti psudo moralisteggianti volti a definire spirituale e carnale in
maniera chiara e didascalica.
Ottavo romanzo di Andrea De Carlo, milanese del 1952,
pubblicato nel 1995, Uto è probabilmente l'ultimo libro dell'autore degno di
chiamarsi tale. Anche qui tornano i pregi e difetti che hanno contrassegnato la
prima parte della sua attività narrativa. Trame forse troppo dicotomiche ed
ingessate, idee semplici e per così dire che rimangono sempre sospese, ma
scrittura efficace, dialoghi secchi e mai lascivi, ritratti convincenti. stroia
quindi un po' traballante nei contenuti, ma formalmente quasi perfetta,
ammirevole.
E la netta sensazione che le protagoniste femminili fortunamente non siano
solamente una pallida ripetizione della scialba ed impalpabile Malaidina che
dissennatamente recitava la sua amorfa parte in "Uccelli da gabbia e da
voliera" (1982).perché De Carlo, dopo questa prova, cadrà inesorabilmente
in questa stanchezza, divenendo tipico esempio di serializzazione e
tipicizzazione che secondo i più consolidati teoremi critici in materia sono le
fondamenta della cosidetta paraletterattura. Non serve particolare acume
critico per identificare che la narrativa successiva di De Carlo si veste e si
ammanta di queste particolarità.
Mi ero innamorato del suo stile. Un' innata narrativizzazione
tesa ad oggettivizzare la descrizione, per raffigurare, quasi avesse il
pennello ma poi usasse la penna (o la tastiera, è uguale). Ed una grandiosa
magistrale capacità di rendere visibili attraverso lo scritto sensazioni
tattili ed olfattive.
Tutto questo quando venti anni fa lessi Treno di panna ( uscito nel 1981). Ne
apprezzai le doti scrittorie liscie, levigate e compatte, una freddezza cinica
difficilmente empatica ad una prima lettura, ma molto personale, suadente, dura
eppure così profonda. Quella semplice storia, molto Fitzgerald (Il grande
Gatsby, citato dall'autore ad inizio di un altro romanzo è un segnale chiaro)
in realtà, me la portai letterariamente dentro.
Mi lasciai quasi all'estasi con la prima parte di Due di due (1989), un romanzo forse troppo lungo e nello stesso tempo lancinante e breve
sugli anni settanta in Italia vissuti da un borghese nemmeno piccolo piccolo.
Ma le prime cento pagine. Guido Laremi, l'io narrante.Quante condivisioni. E
aspirazioni. E desideri che. Venivano fuori come evocati da quelle frasi rapide
e senza fronzoli, in quella vita descritta eppure plastica, da quelle emozioni
che parevano anche mie. Anche loro, anche nostre. Li sembrava qualcosa
possibile. Oltre, davanti e comunque. Perché "Due di due" è un inno,
dal titolo il mondo sarà nostro.
Autore quindi stilisticamente dotato, capace di scrivere
come se si leggesse una fotografia, dopo questa prova ha così intrapreso una
inesorabile china discendente, con uscite a cadenza annuali, storie sempre più
deboli, esili, fragili e una scrittura fiacca ed iterativa, una pallida
imitazione di sè stesso. Andrea De Carlo ha così bivaccato nelle ombre del
vorrei ma non posso o forse non riesco, belle storie tradite dall'incapacità di
romanzare, scritti perfetti che però erano solo un elegante plastificazione di
un anelito interiore fiacco o forse meramente debole congenitamente.
Risulta evidente come questo confermi la debolezza dell'intero movimento
letterario nostrano. Magari avrà sostanziato il suo conto in banca, ma di certo
l'eterna promessa della narrativa italiana di fine novecento è finito
nell'inferno letterario dei dimenticati. O rimossi, come nel mio caso.
Così va la vita e anche la Letteratura.
Pubblicata su Ciao.it il 25.03.2012
Nessun commento:
Posta un commento