25 agosto 2015

Piccola guerra perfetta (Elvira Dones)


Paura. Terrore. Orrore. Errore. La guerra uccide, non ammette repliche, divide, non unisce. La guerra è bestiale. Anche se alla fine la combattono solo gli uomini, per ragioni a volte squisitamente politiche e non di sopravvivenza.

Rea sta festeggiando il suo compleanno. E' giovane, piacente, brucia di vita. É leggermente alterata, perché il suo ragazzo, un brillante giovane giornalista, non ha voluto fare l'amore. Chissà come, chissà perché. La sua fida amica Nita, più grande di lei e già professoressa all'università, libera, indipendente, fa del tutto perché quel giorno assomigli ad una festa. Perché purtroppo tutto rema contro. Fuori ci sono esplosioni. Ma non sono fuochi d'artificio per Nita. Anzi. È il 24 marzo 1999. Siamo a Pristina, capoluogo del Kosovo, provincia serba a maggioranza albanese. I kosovari vorrebbero staccarsi dalla Serbia, come già prima han fatto, versando sangue, Croazia e Bosnia.


Siamo in guerra. Proprio quel giorno infatti aerei della Nato hanno cominciato a bombardare la zona per indurre Miloševic, presidente ultranazionalista della Serbia, a fermare la pulizia etnica e abbandonare la regione e lasciarla libera di autodeterminarsi.

Nita ospita alcuni suoi parenti a casa. Le notizie si susseguono, si accavallano e sono drammatiche. Si viene a sapere che i serbi finalmente allentano la morsa sulla città per consentire agli odiati albanesi di andarsene. Le famiglie alloggiate da Nita partono quasi subito, ci sono donne e bambini e speranze cui aggrapparsi. Che la fortuna sia con loro. Rimarrà con le ragazze solo Hana, che non sta bene e spera ardentemente che i suoi due figli, andati presso conoscenti prima dello scoppio dei bombardamenti, prima o poi si facciano vivi. Perché fuori si respira morte, odio, come solo la guerra sa fare. La città spettrale e deserta, ostile verso I kosovari, accusati di essere traditori. I collegamenti telefonici bloccati solo ai non serbi, paramilitari minacciosi che si aggirano, notizie ferali e grondanti sangue che vanno a far visita ai pochi spauriti albanesi che ancora son rimasti.Piccola guerra perfetta (Elvira Dones) La guerra vista dalle donne 12.06.2011 In media l'opinione è' stata valutata Eccellente da 24 utenti Ciao Paura. Terrore. Orrore. Errore. La guerra uccide, non ammette repliche, divide, non unisce. La guerra è bestiale. Anche se alla fine la combattono solo gli uomini, per ragioni a volte squisitamente politiche e non di sopravvivenza. Rea sta festeggiando il suo compleanno. E' giovane, piacente, brucia di vita. É leggermente alterata, perché il suo ragazzo, un brillante giovane giornalista, non ha voluto fare l'amore. Chissà come, chissà perché. La sua fida amica Nita, più grande di lei e già professoressa all'università, libera, indipendente, fa del tutto perché quel giorno assomigli ad una festa. Perché purtroppo tutto rema contro. Fuori ci sono esplosioni. Ma non sono fuochi d'artificio per Nita. Anzi. È il 24 marzo 1999. Siamo a Pristina, capoluogo del Kosovo, provincia serba a maggioranza albanese. I kosovari vorrebbero staccarsi dalla Serbia, come già prima han fatto, versando sangue, Croazia e Bosnia. Siamo in guerra. Proprio quel giorno infatti aerei della Nato hanno cominciato a bombardare la zona per indurre Milošević, presidente ultranazionalista della Serbia, a fermare la pulizia etnica e abbandonare la regione e lasciarla libera di autodeterminarsi. Nita ospita alcuni suoi parenti a casa. Le notizie si susseguono, si accavallano e sono drammatiche. Si viene a sapere che i serbi finalmente allentano la morsa sulla città per consentire agli odiati albanesi di andarsene. Le famiglie alloggiate da Nita partono quasi subito, ci sono donne e bambini e speranze cui aggrapparsi. Che la fortuna sia con loro. Rimarrà con le ragazze solo Hana, che non sta bene e spera ardentemente che i suoi due figli, andati presso conoscenti prima dello scoppio dei bombardamenti, prima o poi si facciano vivi. Perché fuori si respira morte, odio, come solo la guerra sa fare. La città spettrale e deserta, ostile verso I kosovari, accusati di essere traditori. I collegamenti telefonici bloccati solo ai non serbi, paramilitari minacciosi che si aggirano, notizie ferali e grondanti sangue che vanno a far visita ai pochi spauriti albanesi che ancora son rimasti. C'è poco spazio per la fantasia e per sentimenti liberi, puliti. Si può solo cercare di sopravvivere. Cercando aria da respirare. Forse qualcuno di voi ricorderà quel marzo 1999. L'Italia era guidata da un post comunista come D'alema. Che però non esitò a mettere a disposizione, uomini, mezzi e basi alla Nato per “consigliare” a suon di missili il presidente serbo Miloševic, poi accusato di crimini contro l'umanità ma mai condannato per la sua prematura morte, di abbandonare la sua idea di una Grande Serbia, erede della vecchia e disgregata Jugoslavia comunista, mettere in soffitta nostalgie nazionaliste ed insomma, comportarsi in maniera civile. La Nato annunciò allora che in massimo 72 ore i bombardamenti sarebbero cessati. Come al solito sarebbero state missioni di pace fatte di bombe e mitragliatrici, ma intelligenti e chirurgiche, scrupolosamente mirate e dedite a colpire solo obiettivi militari. La solita gigantesca imbarazzante bugia. Le incursioni aree, di questa guerra anomala fatta solo dal cielo per espresso volere della coalizione, durò mesi, fino a fine giugno, quando finalmente la Serbia ammainò i suoi bellicosi propositi. Ma nel contempo si fecero dei clamorosi errori, come colpire l'ambasciata cinese o distruggere un treno civile pieno di passeggeri. Questo quello che fu ed è ormai Storia. La repressione serba fece centinaia di morti albanesi, a loro volta guerreggianti con il partito combattente Uck, così come la missione di pace Nato. “Piccola guerra perfetta”, uscito 2010 è un bel romanzo, politicamente direi corretto e sostanzialmente vivo, vero, non struggente. Non maestoso né arioso se volete, ma drammatico, intenso, tragicamente semplice. Ed al femminile. Senza traboccare inutile retorica, che in situazioni del genere ovviamente è in agguato, racconta una storia di donne schiacciate e cacciate dalla guerra. Donne normali, né troppo coraggiose né troppo impaurite. Ciascuna rimane a Pristina per qualche proprio motivo, anche se rimanere è quantomeno rischioso, vista l'atmosfera e la notoria violenza e prepotenza dei serbi. Lo stile è agile, scarno, nervoso, ma non ruvido, con largo spazio lasciato a dialoghi veloci, ritmati, con frequenti sovrapposizioni nel racconto di diversi tempi verbali, dal passato al presente al passato, per dare ancor più la sensazione di essere in presa diretta.. Non parla solo di guerra e crudeltà, ma anche di amore, gli amori vissuti in maniera diversa dalle tre donne, così come parla di amicizia né per forza tenera o emotiva ma vigorosa, salda, radicata. Una scrittrice dunque interessante questa Elvira Dones, che scrisse questo romanzo dopo aver fatto visita a Pristina nel dicembre 1999, sei mesi dopo la guerra. “...questa era la nostra guerra. E questa che a modo mio ho voluto raccontare” afferma nei ringraziamenti in calce al libro. La Dones è giornalista, scrittrice e sceneggiatrice albanese, nata nel 1960 a Durazzo, Albania. Come si legge in quarta di copertina ha scritto sette libri in madrelingua e gli ultimi due, compreso questo, in italiano, sua lingua di adozione. Direi che se l'é cavata egregiamente. Attualmente vive negli Usa. Appare scrittrice dotata, di certo non stereotipata, non eccessivamente letteraria o convenzionale. Magari sarà da rileggere in prove dove la tematica non sia di per sé emotivamente già coinvolgente da produrre immediatamente empatia nel lettore. Comunque consigliato per i suoi inevitabili risvolti storici, anche se recenti e per ribadire che la guerra è una invenzione dell'uomo. E quindi un'invenzione idiota. C'è poco spazio per la fantasia e per sentimenti liberi, puliti. Si può solo cercare di sopravvivere. Cercando aria da respirare.
Forse qualcuno di voi ricorderà quel marzo 1999. L'Italia era guidata da un post comunista come D'alema. Che però non esitò a mettere a disposizione, uomini, mezzi e basi alla Nato per “consigliare” a suon di missili il presidente serbo Miloševic, poi accusato di crimini contro l'umanità ma mai condannato per la sua prematura morte, di abbandonare la sua idea di una Grande Serbia, erede della vecchia e disgregata Jugoslavia comunista, mettere in soffitta nostalgie nazionaliste ed insomma, comportarsi in maniera civile. La Nato annunciò allora che in massimo 72 ore i bombardamenti sarebbero cessati. Come al solito sarebbero state missioni di pace fatte di bombe e mitragliatrici, ma intelligenti e chirurgiche, scrupolosamente mirate e dedite a colpire solo obiettivi militari. La solita gigantesca imbarazzante bugia.
Le incursioni aree, di questa guerra anomala fatta solo dal cielo per espresso volere della coalizione, durò mesi, fino a fine giugno, quando finalmente la Serbia ammainò i suoi bellicosi propositi. Ma nel contempo si fecero dei clamorosi errori, come colpire l'ambasciata cinese o distruggere un treno civile pieno di passeggeri. Questo quello che fu ed è ormai Storia. La repressione serba fece centinaia di morti albanesi, a loro volta guerreggianti con il partito combattente Uck, così come la missione di pace Nato.
“Piccola guerra perfetta”, uscito 2010 è un bel romanzo, politicamente direi corretto e sostanzialmente vivo, vero, non struggente. Non maestoso né arioso se volete, ma drammatico, intenso, tragicamente semplice. Ed al femminile. Senza traboccare inutile retorica, che in situazioni del genere ovviamente è in agguato, racconta una storia di donne schiacciate e cacciate dalla guerra. Donne normali, né troppo coraggiose né troppo impaurite. Ciascuna rimane a Pristina per qualche proprio motivo, anche se rimanere è quantomeno rischioso, vista l'atmosfera e la notoria violenza e prepotenza dei serbi.

Lo stile è agile, scarno, nervoso, ma non ruvido, con largo spazio lasciato a dialoghi veloci, ritmati, con frequenti sovrapposizioni nel racconto di diversi tempi verbali, dal passato al presente al passato, per dare ancor più la sensazione di essere in presa diretta.. Non parla solo di guerra e crudeltà, ma anche di amore, gli amori vissuti in maniera diversa dalle tre donne, così come parla di amicizia né per forza tenera o emotiva ma vigorosa, salda, radicata. Una scrittrice dunque interessante questa Elvira Dones, che scrisse questo romanzo dopo aver fatto visita a Pristina nel dicembre 1999, sei mesi dopo la guerra. “...questa era la nostra guerra. E questa che a modo mio ho voluto raccontare” afferma nei ringraziamenti in calce al libro.
La Dones è giornalista, scrittrice e sceneggiatrice albanese, nata nel 1960 a Durazzo, Albania. Come si legge in quarta di copertina ha scritto sette libri in madrelingua e gli ultimi due, compreso questo, in italiano, sua lingua di adozione.
  
Direi che se l'é cavata egregiamente. Attualmente vive negli Usa. Appare scrittrice dotata, di certo non stereotipata, non eccessivamente letteraria o convenzionale. Magari sarà da rileggere in prove dove la tematica non sia di per sé emotivamente già coinvolgente da produrre immediatamente empatia nel lettore. Comunque consigliato per i suoi inevitabili risvolti storici, anche se recenti e per ribadire che la guerra è una invenzione dell'uomo. E quindi un'invenzione idiota.



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