Leone è morto, non
giocherà più. E dire che a detta di molti poteva pure farcela, sfondare nel
mondo del calcio, riscattare la sua vita e per indotto quella dei suoi tifosi,
per finalmente abbandonare per sempre quei posti cementificati dove vive,
disumani, annichiliti dal progresso che progredisce in qualche altra parte del
mondo perché lì pare di essere rimasti al Medio Evo, peggio anzi, quantomeno
siamo al Giurassico della società civile.
Il professore Lucertola, dalla filosofia realista e malinconica, non può darsi
pace per questa subitanea e dolorosa morte. Anche poi pensando alla ragazza di
Leone, la bella Lucia. Come d'altronde l'anziano professore, pure non si dà
pace il giovane e scalciante Lupetto, che mirava e rimirava le arti calcistiche
del morto a fucilate e sognava per lui, quasi che fosse una preghiera. Magari
in fondo la rivolgeva a sé stesso, ma vabbé, è piccolo, crescerà.
Assieme a Baol, quello in questione è forse il miglior romanzo scritto da Stefano Benni, perlomeno quello degli esordi, nel lontano 1986 ed intorno all'omicidio di Leone, vittima sacrificale per districare la trama, come nella cifra narrativa tipica dell'autore bolognese, ruoterà una serie di personaggi carismatici, fantasmatici, fanatici, psicopatici, semplicemente surreali così tanto da essere praticamente veri, raffigurati nelle loro manie e nelle loro grossolane evidenze. Si assisterà a ricerche vane, a colpi di scena grotteschi, ad impavide sfide di biciclette contro gorghi mostruosi di macchine, dove i meno peggio, i malinconici avveduti, perdono sempre sapendo di perdere ma continuano a vivere ed a crederci.
Lucio Lucertola,
Lupetto, Arturo, Lucia, Carlo Camaleonte, Leone. E soprattutto Kim, il cinese,
il pazzo che però capisce che la sua non è una malattia ma bensì una differenza
che non può rimanere indifferente al degrado dei tempi, dei modi, delle
situazioni. Una storia appunto per certi versi inverosimile, ma dai risvolti e
dalle tematiche terribilmente attuali, il tutto agghindato ed abbellito dalla
forse nota capacità benniana di giocare con le parole e riuscire ad essere
innovativo semplicemente operando sul lessema, con ritmo e talvolta poesia, un
continuo stravolgimento di tono, al fine di porre in essere uno stile magmatico
che ai suoi tempi era sicuramente originale e fragrante, privo di ripetizioni ed
animato da verace, mordace e sarcastica vis narrativa. Anche se la trama
tradizionalmente intesa è spesso esile, fugace, addirittura banale, ma è la
parola che ravviva e rende brillante il tutto.
Un groviglio di vicende
talvolta paradossali imperniate su differenti registri, dalla farsa al comico,
ma somiglianti a quel che si vive in un condominio di una grande città, nelle
periferia più periferica distante anni luce dal centro, più che per chilometri
per conti in banca. Insomma: "È come nel blues: si può scivolare su altri
accordi, variazioni di melodia o di malinconia, ma si ritorna sempre
all'accordo iniziale, quello che racconta la storia" .
Una fiaba per adulti
forse, un romanzo di racconti che si legano e si slegano all'infinito, nella
migliore tradizione di Stefano Benni, quello più vero, autentico, motivato.
Perché poi perdere le motivazioni tocca a tutti, anche ad uno scrittore che
prometteva bene.
Capisco. siamo un epoca apparentemente senza problemi di digestione, capace di
assorbire anche il vomito, di digerire la televisione spettacolo e cibi
surgelati anche di sottomarca. Inoltre ci sono molti più profeti che
profetizzati, apparire oramai è l'unico verbo coniugabile mentre l'essere,
intransigente e transitivo è dimenticato, tutto ciò che appare sembra
inevitabile o imbattibile, mentre l'essere si sa, è troppo impegnato nelle
pieghe delle beghe quotidiane, nei real-reality show, nell'affrontare nuove
tasse e non può certo pensare di tornare in auge e mettere in soffitta
l'aleatorio. Dunque un romanzo non cambia la vita e nemmeno può dire grandi
verità, perlomeno non a tutti. Ma in un epoca dove ci sono molti sconfitti e
vincere oramai è un reperto archeologico, se la Letteratura, con i suoi modi
asincronici, paralleli, emblematici ci regala un sorriso di speranza, ben
venga. Insomma è uno dei pochi mezzi concreti, attualmente, che ancora regala
l'illusione di mondi paralleli possibili.
“Nostro compito, Lucia, è impedire che ci rubino le parole e magari nutrire le
nuove. A nessuno verrà mai rubato il tesoro delle parole, della scrittura.”
Lucertola professoralmente dixit.
E allora, concludendo,
cosa scegliamo, il tragico del riso o ridere del tragico? Benni, funambolico e
irriverente, gioca fonde e confonde due aspetti che di per sé sono non solo
lontanissimi, ma opposti. E quindi si ride amaro e l'amarezza porta con sé un
sorriso. Perché c'è malinconia, frustrazione impotenza di fronte a questo mondo
urbano così omogeneizzato, ripetitivo, claustrofobico, ingessato da mode ed
atteggiamenti imposti e mal posti, accettati senza la dovuta coscienza critica.
Quanti sogni non si sono sognati, quanti altri invece son piombati, hanno
rubato il cervello ed alla fine hanno invaso la realtà, con quel che comporta
successivamente e con le drammatiche conseguenze che possono accadere in questi
casi. La maggioranza è sempre più convinta che la realtà non si tocca, è
quella, non si può cambiare, I sogni sono solo dei virus purulenti, meglio
ammazzarli, chiuderli in prigione,spedirli nello spazio, insomma, statene alla
larga, sono pericolosi.
E chi si ribella, chi dice no, oltre ad essere sempre in pericolo di
emarginazione totale, non può che essere appunto un comico spaventato
guerriero. Non è Davide contro Golia, è Davide contro tutti e tutti vinceranno,
anche se la vittoria materiale non sarà ma la loro, ma moralmente ne usciranno
trionfatori. Anche se Leone è morto.
E Lucertola come sapete
non si arrende. anche se oramai fatica a camminare e i semafori, per lui
ciclo-amatore, sono un incubo.
"Voglio vivere ancora duecentocinquanta anni. Vivere da lucertola,
strisciare sui muri al sole, sdraiarmi nel prato a zampe in su e pensare che il
cielo non esiste, è un fazzoletto azzurro sugli occhi. Voglio scappare da
scuola, correre ancora nella biblioteca sotto i portici, a leggere libri che
non dovevo leggere, i cui autori ringrazio. Voglio rivedere le piazze piene di
rabbia, e certe sere, seduti sui gradini, a perder tempo. Certe sere in cui
sentivi che, in un paese lontano, una fucilata ammazzava uno come te. Voglio rivedere
tutti i miei amori, anche quelli cosiddetti sbagliati. E tutti i miei amici in
fila. Voglio imparare a suonare il sassofono, studiare medicina, vedere i
marziani. A settant’anni è il minimo. Voglio sentire in una volta i nodi con
cui sono stato legato al mondo, ogni volta che la mia vita si è incrociata con
un’altra. Crollare a terra sotto questo felice groviglio.
La felicità forse è un’altra cosa, ma quello che mi è passato sotto gli occhi,
questi anni, non lo cambierei mai con niente".
Un po' carpe diem, un po' un crepuscolarismo di stampo leopardiano, un po'
quella goliardia benniana che quando non te lo aspetti sconfina nella poesia
senza rima, ma che fa sentire tutto meno brutto, compreso il mondo, questo
mondo qui, quello da seppellire sotto una valanga di risate per renderlo
migliore.
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