13 novembre 2014

Venti sigarette a Nassirya (Aureliano Amadei, Francesco Trento)

Il fumo fa male. Le sigarette uccidono. C’è scritto anche sul pacchetto, da qualche anno. Mai però come una bomba che causa una strage efferata. Mai, in ogni caso, non con la stessa rapidità, violenza, virulenza. Ma anche se il fumo nuoce gravemente alla salute, speriamo in futuro che ci siano pacchetti di sigarette da cui aspirare più libertà, più umanità di queste "Venti sigarette a Nassirya", che inceneriscono vite, speranze e legami, che son fatte di un tabacco concimato con sopraffazione, sangue, orrore, errore, inciviltà. Credetemi, non sono il popolo della pace, al massimo ho fatto l'obiettore di coscienza. Ma non sono nemmeno uno inerte e passivo, di fronte a quel crimine insopportabile chiamato missione di pace e che è invece solo aridamente guerra.



Non so cosa stesse facendo ciascuno di voi il 12 novembre 2003, sinceramente non ricordo nemmeno cosa facessi io. Ma alle 10.40 locali, a Nassirya, popolosa città irachena, tutto cambierà radicalmente per 28 persone, in un istante, senza possibilità di alcun appello, senza aver commesso, almeno in quel momento, alcun atto, ammesso che ce ne siano, per far sì che succedesse l’unica cosa cui non si può porre rimedio, almeno su questa terra: la morte. un secondo e via, tu non ci sei più.
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Un camion imbottito di tritolo infatti esplode all’entrata del locale stanziamento di presunto peacekeeping italiano, la Maestrale, base occupata dai nostri Carabinieri in pieno centro cittadino e sprovvista assolutamente delle più elementari precauzioni perlomeno materiali nei confronti di un attacco di questo tipo. Perdono la vita 19 nostri connazionali, 12 Carabinieri, 5 militari e due civili, il regista Stefano Rolla, incredibilmente autorizzato ad essere lì per girare un film documentario e un cooperatore internazionale.

Dall'intento documentario, scritto come un romanzo con linguaggio secco ed aggressivo, questo è un libro che assolve ad uno dei più importanti compiti della forma scritta: mantenere la memoria dei fatti, con ricordi di chi sopravvisse all'attentato. Perché il coautore del libro Aureliano Amadei stette lì, in quel posto, il tempo giusto per scamparne miracolosamente e non finirsi nemmeno un pacchetto di sigarette Un grido di dolore, affatto soffocato contro il dolore che arreca la guerra, contro l’ipocrisia neanche velata delle nostre Istituzioni nei confronti di una missione che di pace non aveva nulla se non la delibera parlamentare che la autorizzò. Stile accattivante, rapido, agile, nervoso, senza retorica, pensieri strappati dalla rabbia e dalla paura e messi lì, in ordine non tanto casuale, sulla pagina bianca.

Non è un istant-book, pieno di colpi di scena o perfide ilazioni né una ragionato o delirante saggio-resoconto stentoreo dell'accaduto. C'è il vissuto quotidiano dell'anarcoide Aureliano, che sogna il cinema, che si apparecchia e contorna la storia, la illumina con squarci ironici, un microcosmo narrativamente riuscito di un ragazzo che viene schiacciato da un'esplosione tragica che gli cambierà la vita per sempre e gli aprirà direttamente gli occhi sul lato oscuro della real-politik. Ci sono le piccole e grandi storie di chi è morto e di chi l'ha fatta franca, quel giorno, magari per poi recitare in tv la parte di eroe. 
E' un resoconto ritmato talvolta persino brillante e decisamente umana, una visione soggettiva, su un fatto emblematico ed allo stesso tempo dimenticato in fretta. Anche perché tutti hanno continuato a fumare sigarette. Tutti sono rimasti in Iraq ed in Afghanistan. E la morte, l'ipocrisia politica, la stoltezza occidentale ha continuato inesorabilmente a mietere vite umane come cicche di sigarette, bruciati via, cenere.
Si legge facilmente, scorre via, ma lascia un amaro in bocca e la sensazione di un pugno nello stomaco, come solo la guerra non dichiarata e quella manifesta sanno fare.
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La valutazione positiva non va alla qualità letteraria dello scritto, scorrevole e vivace e nemmeno alla logica politica più o meno utopistica che qua e là trapela. Va al riuscito tentativo di una celebrazione scritta in nome più che della comune matrice ideologica o politica della compassione e comparticipazione umana, va al culto della memoria e della testimonianza, alla credo sincera commozione che pervade molte delle pagine senza alcuna retorica di regime o di ribellione o ribellismo. Semplicemente, senza alcuna morale o romanticismo posticcio e datato, make love not war. e non prendiamoci in giro: non esistono missioni di pace quando occupi militarmente un paese con motivazioni quantomeno pretestuose.
Realizzato anche un film, con la regia dello stesso Aureliano Amadei, su cui è possibile reperire qualche informazione in Rete.

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