25 novembre 2014

Con le peggiori intenzioni (Alessandro Piperno)

Lo so. A volte il titolo mi prende e porta via, come una passione insana e insanabile. E questo titolo ha quelle peculiarità. Poi l'ambientazione. Questa meraviglia delle meraviglie che tutti chiamano anni sessanta. Dove tutto poteva succedere, molto forse pareva accadere e poco, a stringere le conclusioni, fece succedere in seguito, se non un inesorabile stritolamento delle impossibilità allora apparentemente possibili. Italia era e Italia è rimasta, con qualche pseudo liberalizzazione in più e qualche corporazione che si è accorpata in corporazioni più grande. E qualche rigurgito xenofobo di sapor provinciale che ogni tanto qui e là goffamente fuoriesce, così stolto da essere quasi folkloristico, benché deprecabile. 



 "Con le peggiori intenzioni" è la storia, di largo respiro, di un'ascesa verso il paradiso della ricchezza fulminante come della successiva caduta agli inferi e di un degrado morale prima latente e poi sempre più ingrassato, evidente. Dagli anni sessanta, appunto, ad oggi. Questa contorta e contorcente cavalcata verso gli apici, verso le vette della montagna della gerarchia sociale, questa inebriante corsa certi che il futuro fosse a portata di mano, era una pazza olimpica gara che ubriacò di benessere e sogni i nostri genitori, perché l'Italia c'era, l'Italia rinasceva, grazie alla buona stella e a a mamma America che così languidamente pasceva le sconclusionate ambizioni di un pase tenero come un vagabondo e provinciale come un bifolco dell'Arkansas. Assoluzione mancata, soluzione ricercata e dissoluzione servita della famiglia Sonnino. Amori che si inseguono senza speranza, torbide pulsioni sessuali soddisfatte o insoddisfatte comunque nascoste e simulate, pillole di rara crudeltà, di malinconico ricordo, di assidua colpevolizzazione, di scarsa lungimiranza e di tutto sommato cupo tenore, con il riscatto che sembra latitare e la condanna, più o meno capitale, che imperversa sul capo do ognuno dei personaggi. Storia alla ottocentesca, con saga familiare in primo piano e sullo sfondo questa Italia rampante ed entusiasta, che scopre la televisione mentre l'America esplora già il computer, con l'io narrante teso ad avere sguardo intermittente e quasi sadico ad autopunirsi ed a punire piccoli e grandi misfatti personali e non. Il tutto condito alla israeliana, con questa salsa ebraica che permea le pagine con tanto di note a pié di pagina a spiegare le esotiche citazioni in lingua originale, tensioni razziali all'amatriciana, con una religione più ostentata che vissuta, più strumento che fine, più significante che significato, deus ex machina che dipana la trama, dirige le vite dei protagonisti, ma non appare midollo osseo, più che altro una plastica facciale alla vis narrativa, un pretesto, un vestito da indossare per ballare coerentemente al ballo del racconto. Stile rigoroso e rigogliante, fiumi di parole che si fondono nel mare di "perché" e di "come", uso ricercato della lingua con una varietà lessicale inconsueta in quest'epoca affollata dalla povertà linguistica e dall'abuso trendy di neologismi alla moda, senza incappare in una voluttuosa libidine auto compiacente di un Baricco ad esempio, perché in quest'ultimo la religione dello stilema barocco e abbagliante è fine a se stessa mentre in Piperno la valanga prorompente di lessemi suadenti volge a rendere il magmatico caos di pensieri e sentimenti. Psicologista certo, psicologico alla russa senza dubbio alcuno, dove l'interiore rigurgita a inondare i fragili argini dell'esteriore fino a farlo inesorabilmente suo. Un continuo ragionamento che non si attorciglia su se stesso fino a strangolare la narrazione, una prima persona con improvvise esemplificazioni diegetiche, squarci di raccordo che placano la verbosità e gettano luce ed ombra sulle più che evidenti psicologie dei protagonisti. Forse la reiterazione non giova, e come un vortice si torna allo stesso punto di partenza, per poi ripartire, una narrazione a cerchi concentrici che istericamente riparte da capo. Ebbene sì, sceverare, scindere, sbriciolare concetti illustra la visione del protagonista, ma la misura è indice di tenuta narrativa e di poetica che fluisce limpida e lucida. Dò quattro stelle ed il consiglio di leggerlo, anche se tale valutazione può apparire avventata. Non mi sento di bocciare un romanzo che ha qualche pesante difetto estetico per i miei gusti ma che rappresenta comunque una scelta stilistica coraggiosa in un panorama di produzioni italiane di grido a mio parere abbastanza sconfortante. Pensiamo alle baricchiane pindariche involuzioni linguistiche, ai sentimentalismi fuori moda che si inturgidano nei romanzi nostrani, ai giovanilismi esuberanti senza linfa eppur così strepitosamente accettati in base al Moffa-pensiero, ai vouyerismi di basso livello, ai romanzi scritti bene ma che non dedicano la minima attenzione al surplus che la narrativa può dare (l'ultimo Ammaniti), ebbene, viva Piperno. Se non altro non mi stanca. Magari qua e là involuto, ma perlomeno personale. E la personalità, come le rondini, in letteratura italiana è scomparsa qualche primavera fa. E, abbiate venia, in questo caso primavera fa rima con secolo. 

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