Quando a Milano il 14 luglio 1979 si tengono i funerali di Giorgio Ambrosoli, milanese, morto assassinato dopo essere stato nominato da qualche anno liquidatore delle due banche di proprietà dell'affarista faccendiere Michele Sindona, causa insolvenza e conseguente fallimento, nessun rappresentante istituzionale presenzia al luttuoso evento. Nessuno, esatto, del mondo politico.
Dei presenti però ne sente la mancanza ad onor del vero. Almeno questa è la forte,smaccata, livida impressione che se ne ricava a posteriori.
I familiari, gli amici sapevano. O immaginavano. non avevano bisogno di suggerimenti. Il loro Giorgio era uno dei "giusti", uno di quelli che ci credono, uno che non si era spaventato a trovarsi di fronte un muro di gomma ed una fitta ragnatela di passaggi, ritiri, consegne non solo poco chiari, ma non legittimi, fuorilegge. Non poteva andare d'accordo con lo stuolo pavido e promiscuo, talvolta putrido del mondo politico.
Una ordinaria, disordinata storia all'italiana, dove connivenze, convenienze e convenevoli immolano sull'altare del sacrificio una vittima predestinata, se si vuole consapevole ma comunque innocente o meglio, colpevole di lavorare. Peccato che fosse un lavoro incentrato sullo stanare le pecche peccaminose di altri che agivano sulla base di mandati e protezioni dei poteri forti.
Dalle carte poi divenute di dominio pubblico, Giorgio non era il classico faccendiere avvocaticchio, il nostrano Azzeccagarbugli dedito a soddisfare pedissequamente il volere politico e al limite tormentato di avere al più presto il proprio meschino, losco, semi-pulito tornaconto personale. Non godeva di particolari entrature, non aveva padrini. Eroe non credo, contrario alla sua indole quella di rivendicazioni apocalittiche e ribelli , ma uomo "giusto" e borghese nel Dna, fiero di esserlo, convinto che il ceto sociale non significhi automaticamente slealtà o peggio connivenza con il male.
Era un uomo solo. Non gli regalavano case a sua insaputa, non scendeva in campo, non millantava ideologie populiste o popolane,non organizzava festini a casa sua e non andava in televisione ad affermare scellerate pseudo considerazioni programmatiche.
Certo, aveva delle sue personali idee, ci mancherebbe. Per esempio, senza che ciò indirizzasse in una maniera piuttosto che in un'altra il suo accurato, periglioso, pignolo, puntuale operato, era visceralmente anticomunista. Soprattutto nel senso che odiava il comunismo retorico e pseudo rivoluzionario della piazza, quello pacchiano e volgarmente classista, volto al proselitismo ma sostanzialmente miope. Ma non per questo ne faceva una questione di principio, anzi. Non di rado infatti, nei suoi anni da liquidatore, cercava comprensione e dialogo con la sinistra di stampo socialdemocratico, ove ve ne fosse in quella Milano ed in Italia in generale.
Senza scorta o protezione, senza incarichi para-governativi nel sottobosco statale, con qualche solida e non stolida amicizia coltivata al di fuori del lavoro come liquidatore nell'ambito della sua professione di avvocato. Un marziano, nell'Italia di allora, quella degli anni Settanta, in piena crisi morale, politica, economica. Probabilmente un extraterrestre anche ora, dove Stato e statale sono ancora sintomo di inefficienza, malgoverno, abuso, pigrizia.
Non a caso la classe dirigente della politica di allora ascoltò e perorò più volte la causa del suo nemico più che la sua, benché egli fosse uno al servizio dello Stato e Michele Sindona, come poi i processi verificheranno, un uomo che non operava certo a favore della collettività nazionale eticamente e costituzionalmente intesa, anzi. Un losco, spregiudicato trafficante finanziario, con vaste entrature nel mondo politico, bancario, religioso e anche in seguito, a quanto pare, mafioso
Siamo, ripeto per inciso, sul finire degli anni settanta, quel luttuoso e fatidico decennio che sconfinò negli anni ottanta portando con sé odore di morte, stragi, servizi deviati e l'inconfutabile prova dello stato di deterioramento delle istituzioni italiane e dello stesso concetto di paese e nazione.
"E' indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese". Questa frase, forse meglio di qualunque altra dichiarazione pubblica o privata, estratta da una lettera alla amatissima moglie Anna, rende l'idea di chi fosse Ambrosoli.
Per inciso, come si può leggere anche su Internet, nel 1971 la Banca d'Italia, sollecitata dal Banco di Roma aveva investigato su Sindona e le sue spericolate azioni finanziarie. Si provò di non fare fallire gli Istituti di credito sindoniani (Banca Unione e Banca Privata Finanziaria), al fine di eviatre panico fra i detentori di conto corrente della Banca di Roma. Il Direttore Centrale del Banco di Roma, Giovanbattista Fignon, divenne Vice Presidente e Amministratore Delegato della Banca Privata Italiana, istituita per evitare il crac ed assorbire la galassia sindoniana. Fignon capì subito che c'era poco da fare. Nel 1974 tutto ciò portò ad un commissario liquidatore per insolvenza, Ambrosoli appunto. Al quale non ci volle molto per comprendere drammaticamente da subito la vastità e profondità del problema, l'estrema articolazione delle operazioni, il ruolo palese e d occulto svolto dalla società "Fasco", la longa manus del gruppo sindoniano con sede all'estero. Ecco che vennero scoperte irregolarità di vario tipo e falsità nelle scritture contabili.
A nulla valsero le pressioni sul liquidatore, che proseguì imperterrito nella sua opera fino ad essere assassinato.
Il 18 marzo 1986 a Milano, Michele Sindona e Roberto Venetucci (un trafficante d'armi che aveva messo in contatto Sindona con l'assassino), mandanti del killer a pagamento William Joseph Aricò, furono condannati all'ergastolo per l'omicidio, in uno scandalo che coinvolse la mafia, la P2 e ovviamente il partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, che giocoforza attraverso i suoi esponenti di rilievo ebbe un ruolo purtroppo nefando nell'intera vicenda, sia a livello di pressioni che di interventi pseudo-legislativi. La sentenza richiamata fece epoca, anche senza ovviamente riuscire a lambire chi, tra le cariche istituzionali, avesse commesso eventuali reati.
Bello lo stile dell'autore, Corrado Stajano. Narrare episodi di questa portata e questa valenza comporta sempre alcuni rischi insiti nelle tematiche esposte prima. Stajano appare lucido, non retorico. Anche nel tratteggiare la personalità seriosa, composta, metodica di Ambrosoli, l'autore infatti cerca il distacco e l'analisi più obiettiva possibile, anche se il disegno del libro è chiaro, politicamente e storicamente, sin dal titolo, invero appropriato. Non sono perciò risparmiati al lettore crepuscolari interni familiari atti a delineare meglio la personalità dell'ucciso, ma anche ad evidenziare come lo stato ti possa abbandonare.anche quando operi in suo nome.
Buono decisamente il film realizzato da Michele Placido nel 1995. Con scelta sapiente, l'attore e regista costruisce una pellicola fatta di rumori attutiti, discorsi pacati, inquadrature sobrie,minimali, che rendono pienamente giustizia a quello che il testo in questione ci vuole trasmettere. Bravo anche Bentivoglio, nella parte di Ambrosoli.
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