Abbasso la vecchiaia, evviva la bellezza per sempre, la gioventù. C'aveva già provato Dorian Gray, ma non conta. La vita è un immenso palcoscenico. Parliamone, Julia Lambert. Dunque per vivere bisogna sapere recitare. Metafora trita e ritrita che ma che nasconde molteplici angoli di visione: pirandelliani, kafkiani, shakespeariani e chi più ne ha ne metta. Ma oggi ne parliamo solo con te, Julia, ovvero la diva protagonista incontrastata, very one-woman- show di questo romanzo, un po' madame Bovary e un po' Britney Spears, con la sua storia parabola di molte esistenze femminili di grido. E non gridiamo assieme, a volte il silenzio é d'oro.
Abbiamo una coppia in crisi, due noti protagonisti dello spettacolo nel mondo anglosassone fine anni trenta del novecento, dove la guerra mondiale imminente rappresenta solo un mero spauracchio da carnevale, una luce soffusa, un'ombra aleggiante. E i due hanno relativo figlio imbarbarito dal benessere famigliare e da una adolescenza eccessivamente puberale.
Eccolo lui, il padre, belloccio, affermato, incapace di soggiogare di nuovo la moglie ed in fondo contento di ciò, superficiale, distante. Michael è talmente perfetto da avere un posto d'onore nel museo delle cere, oppure in qualche angolo nel magazzino del vissero felici e contenti. Uomo fortunato, bello, ricco, inetto. Un povero uomo, insomma.
Invece lei, la madre Julia invece è tutto e niente. E' tutto perché bellezza, sicurezza, freddezza, calore, successo, maestria. Ma é anche niente: debolezze, dubbi, era meglio quando stavo peggio. Julia é fame, fame di vita, carezze, emozioni, é digiuno di amore, é sete di adrenalina pura. La sua recita infinita infatti l'ha dilaniata da dentro e la sua anima ha più rughe del suo viso.
Nel mezzo di questa coppia scoppiata, nel mezzo e basta, il rampante giovane Fennell, apparso all'improvviso e subito decisivo nello strangolare l'ultimo efflato di vita di un amore ormai agonizzante.
Fennell è prototipo sgangherato del motto assai poco consono all'esistenza "o tutto o niente".
Ma la cicala canta una stagione si dice, e la formica passa l'inverno. Vediamo come te la cavi, dear Fennel, in questo rompicapo. Sei un abile spacciatore di finta timidezza e di modeste intenzioni. Ma ogni parte ha il suo copione, per cui vediamo di recitare con impegno.
Tutti hanno un tratto in comune, anche le comparse minori: non si parlano. o meglio: recitano dei discorsi.
La forza di questo racconto sta nei sobri ed ineccepibili ritratti. Gente di tutti i giorni, anche se agisce su mondi dorati, palchi effervescenti, cronache mondane. E nella loro finzione quotidiana, nel loro rifiutarsi costante e inesorabile, trovano una loro dimensione umana, perché gli esseri umani a volte sono così, una costante negazione, pure domande senza risposta, un silenzio a volte brontolone e rumoroso, ma assolutamente stonato, senza musica.
Autore William Somerset Maugham (1874-1965) inglese, discreto protagonista come narratore di diversi generi (anche il giallo) e di una vasta produzione teatrale
Tecnicamente un romanzo pienamente novecentesco, dove l'importante è quello che sta oltre e dietro le semplici parole, dove l'essere umano appare in tutta la sua meravigliosa, eterna indistruttibile fragilità.
Bello perché è probabilmente tutto quello che non si dice l'essenza stessa della storia, é il non detto ( e nemmeno suggerito). Ma nel contempo quello che il romanzo ci narra é quello che ciascuno di noi respira: i pensieri, i dialoghi e le azioni dei protagonisti. Spesso una buona lettura non ci offre nuove verità e nemmeno ci svela misteri altrimenti inconoscibili: spesso solamente ci lascia un ricordo, un granello di saggezza, uno spunto di riflessione, una emozione da far bruciare nelle fredde sere di inverno quando si è soli e c'è gelo nell'anima, un "non so dirvelo eppure il modo di dirlo c'è".
Insomma opera matura e ben fatta, purtroppo quasi dimenticata, ma nettamente superiore a mio parere a romanzi di tematica analoga quale il decantato "Jezabel" della Nemirovsky, debole quanto sfilacciato.
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