18 novembre 2014

Il barone rampante (Italo Calvino)

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Foto tratta da Pinterest
“Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi”.
Chissà perché Cosimo, giovane adolescente ed agiato infante di nobili di provincia, in un apparente impeto di puerile pazzia, decide di ribellarsi alla sua famiglia, in barba ai precetti. Oppure il suo perché riassume tante varie domande che noi ci poniamo. In ogni caso egli abbandona senza rimorso il fratello ed i suoi genitori, coppia settecentesca nell’anima e leopardiana per connotazioni di biografie letterarie, padre decrepito come i suoi poteri secolari e madre abile occultatrice di ricchezze e stratagemmi da telenovela, amministratrice di possessi sempre più in balia di ruberie strampalate e gestioni tanto maniacali quanto inefficienti.
Cosimo rifiuta il dovuto senza ignorare il dovere, disdegna l’inchino anche se ama l’eleganza e la deferenza, l’educazione ed il bon-ton. Egli sceglie con convinzione invece di essere continuamente e perpetuamente essere scelto, dagli altri o dalla Storia. Va sugli alberi. E ci vivrà una vita, costi quel che costi. Così da bimbo diverrà uomo, avendo la magnifica, sognante, fantastica possibilità di guardare tutto da un ramo senza mai cadere come una foglia morta. Il barone rampante guarda altrove. O meglio, guarda da una prospettiva differente. Ed è un mondo diverso, anche perfettamente calato in quello reale. Ma visto con altri occhi. 

17 novembre 2014

Suttree (Cormac McCarthy)

Un uomo. Anzi tanti uomini. E donne. Ma un solo protagonista. Ed un fiume, uno. Di quelli che se anche scorrono alla fine sembrano invece restarsene sempre fermi, diventare palude. Nel senso che non portano al mare, non vanno da nessuna parte, servono solo per essere fiumi e basta 
Non raccoglie altri fiumi, anzi, è unico, nel suo scorrere, trasportare, sfasciare oppure bagnare. 
E sullo sfondo di una periferia infida, fatta di sentieri scoscesi, acquitrini putridi, una folla di esiliati e sopravvissuti poi una città. Una brutta città.

13 novembre 2014

Venti sigarette a Nassirya (Aureliano Amadei, Francesco Trento)

Il fumo fa male. Le sigarette uccidono. C’è scritto anche sul pacchetto, da qualche anno. Mai però come una bomba che causa una strage efferata. Mai, in ogni caso, non con la stessa rapidità, violenza, virulenza. Ma anche se il fumo nuoce gravemente alla salute, speriamo in futuro che ci siano pacchetti di sigarette da cui aspirare più libertà, più umanità di queste "Venti sigarette a Nassirya", che inceneriscono vite, speranze e legami, che son fatte di un tabacco concimato con sopraffazione, sangue, orrore, errore, inciviltà. Credetemi, non sono il popolo della pace, al massimo ho fatto l'obiettore di coscienza. Ma non sono nemmeno uno inerte e passivo, di fronte a quel crimine insopportabile chiamato missione di pace e che è invece solo aridamente guerra.

Rose Rose (Bill James)

Non significa nulla rapporto libero. Perché liberi non si è mai. Anzi. Anche se non vogliamo, siamo molto prigionieri di circuiti, circonvenzioni, "cervellotismi" sociali di cui facciamo parte. Poi diciamo che non è vero ma alla fine è così. Ecco. Siamo stretti, quasi soffocati, anche quando facciamo finta di respirare a pieni polmoni. Ed una coppia libera, nel senso che ognuno non è legato a niente, può scoppiare e slegarsi per effetto del caso e di questa solida costruzione che solida non è e che chiamiamo società. Sdraiata a terra, nel parcheggio semibuio, Megan Harpur è morta. Ma la spesa dello shopping serale è intatta per terra. Nessuna violenza sessuale o magari rapina. A tarda ora, di notte, chissà cosa ci faceva una bella donna da sola nel piazzale antistante la stazione. Niente di che. Stava tornando a casa per dire al marito che se ne andava. Per sempre. La sua vita oramai era altrove. Colin Hapur, il coniuge, è poliziotto. Avvezzo alle storture improprie del proprio lavoro, dove giustizia, corruzione, invidia e perfidia sono all’ordine del giorno, timbrano il cartellino come normali impiegati quotidianamente.