Lui si chiama Jean-Baptiste Adamsberg. Il classico commissario tenero e tenebroso al contempo, con illustri ed ormai acclarati precedenti. Distaccato, intellettualoide, scontroso, malinconico, devastante con le donne ma con un amore che sfugge, perché Camille è andata via e rappresenta la chimera che alloggia in ognuno di noi. I suoi colleghi sono tratteggiati ma come se dipinti,
instabili e ieratici allo stesso tempo. L'intrigo è oscuro e fantasioso, qualcuno dipinge cerchi azzurri sui marciapiedi, evidenziando al centro del disegno oggetti strambi, quasi inutili e scrivendo una frase quasi esoterica, "Victor, malasorte, il domani è alle porte". Poi però il gioco si fa duro e compare un cadavere all'interno del cerchio, come Adamsberg oscuramente presagiva. Emblematico, contemporaneo, talvolta al limite dell'onirico, più che giallo, bello.
19 novembre 2014
18 novembre 2014
Il barone rampante (Italo Calvino)
Su Amazon Foto tratta da Pinterest |
Chissà perché Cosimo, giovane adolescente ed agiato
infante di nobili di provincia, in un apparente impeto di puerile pazzia,
decide di ribellarsi alla sua famiglia, in barba ai precetti. Oppure il suo
perché riassume tante varie domande che noi ci poniamo. In ogni caso egli
abbandona senza rimorso il fratello ed i suoi genitori, coppia settecentesca
nell’anima e leopardiana per connotazioni di biografie letterarie, padre
decrepito come i suoi poteri secolari e madre abile occultatrice di ricchezze e
stratagemmi da telenovela, amministratrice di possessi sempre più in balia di
ruberie strampalate e gestioni tanto maniacali quanto inefficienti.
Cosimo rifiuta il dovuto senza ignorare il
dovere, disdegna l’inchino anche se ama l’eleganza e la deferenza, l’educazione
ed il bon-ton. Egli sceglie con convinzione invece di essere continuamente e
perpetuamente essere scelto, dagli altri o dalla Storia. Va sugli alberi. E ci
vivrà una vita, costi quel che costi. Così da bimbo diverrà uomo, avendo la
magnifica, sognante, fantastica possibilità di guardare tutto da un ramo senza
mai cadere come una foglia morta. Il barone rampante guarda altrove. O meglio, guarda da una prospettiva differente. Ed è un mondo diverso, anche perfettamente calato in quello reale. Ma visto con altri occhi.
17 novembre 2014
Suttree (Cormac McCarthy)
Un uomo. Anzi tanti uomini. E donne. Ma un solo protagonista. Ed un
fiume, uno. Di quelli che se anche scorrono alla fine sembrano invece
restarsene sempre fermi, diventare palude. Nel senso che non portano al mare,
non vanno da nessuna parte, servono solo per essere fiumi e basta
Non raccoglie altri fiumi, anzi, è unico, nel suo scorrere, trasportare, sfasciare oppure bagnare.
E sullo sfondo di una periferia infida, fatta di sentieri scoscesi, acquitrini putridi, una folla di esiliati e sopravvissuti poi una città. Una brutta città.
Non raccoglie altri fiumi, anzi, è unico, nel suo scorrere, trasportare, sfasciare oppure bagnare.
E sullo sfondo di una periferia infida, fatta di sentieri scoscesi, acquitrini putridi, una folla di esiliati e sopravvissuti poi una città. Una brutta città.
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Cormac McCarthy,
recensione,
romanzo,
Suttree
13 novembre 2014
Venti sigarette a Nassirya (Aureliano Amadei, Francesco Trento)
Il fumo fa male. Le sigarette uccidono. C’è scritto anche sul pacchetto, da qualche anno. Mai però come una bomba che causa una strage efferata. Mai, in ogni caso, non con la stessa rapidità, violenza, virulenza. Ma anche se il fumo nuoce gravemente alla salute, speriamo in futuro che ci siano pacchetti di sigarette da cui aspirare più libertà, più umanità di queste "Venti sigarette a Nassirya", che inceneriscono vite, speranze e legami, che son fatte di un tabacco concimato con sopraffazione, sangue, orrore, errore, inciviltà. Credetemi, non sono il popolo della pace, al massimo ho fatto l'obiettore di coscienza. Ma non sono nemmeno uno inerte e passivo, di fronte a quel crimine insopportabile chiamato missione di pace e che è invece solo aridamente guerra.
Rose Rose (Bill James)
Non significa nulla
rapporto libero. Perché liberi non si è mai. Anzi. Anche se non vogliamo, siamo
molto prigionieri di circuiti, circonvenzioni, "cervellotismi" sociali di cui
facciamo parte. Poi diciamo che non è vero ma alla fine è così. Ecco. Siamo stretti,
quasi soffocati, anche quando facciamo finta di respirare a pieni polmoni. Ed
una coppia libera, nel senso che ognuno non è legato a niente, può scoppiare e
slegarsi per effetto del caso e di questa solida costruzione che solida non è e
che chiamiamo società. Sdraiata a terra, nel parcheggio semibuio, Megan Harpur
è morta. Ma la spesa dello shopping serale è intatta per terra. Nessuna
violenza sessuale o magari rapina. A tarda ora, di notte, chissà cosa ci faceva
una bella donna da sola nel piazzale antistante la stazione. Niente di che.
Stava tornando a casa per dire al marito che se ne andava. Per sempre. La sua
vita oramai era altrove. Colin Hapur, il coniuge, è poliziotto. Avvezzo alle
storture improprie del proprio lavoro, dove giustizia, corruzione, invidia e
perfidia sono all’ordine del giorno, timbrano il cartellino come normali
impiegati quotidianamente.
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noir,
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Rose rose
12 novembre 2014
L'autunno del patriarca (Gabriel Garcia Marquez)
Il
tempo, si sa credo, inevitabilmente scorre. E continua a scorrere anche quando
noi siamo finiti, sorpassati, nulla. Anche per chi indirizza tutti i suoi
appetiti vitali al culto del (proprio) Potere. Potere reale, regale, ma con
peculiarità di sapore ancestrale, quasi categoria metafisica, più che mero
sinonimo di dominio su cose, persone, animali.
Si è portati a pensare, me compreso, talvolta, che i potenti, i detentori del potere possano fare a meno di comuni sofferenze e universali immalinconimenti dell'animo. E invece no, anche qui, a volte si offrono immensi spazi a cavalcate imperiose del decadimento, della solitudine, del ricordo.
Il patriarca è immerso nel suo autunno della vita, quasi oramai sprofondato nell'inverno gelido che non finisce più ed a cui noi tutti arriveremo, ed egli oggi non ha nome, non ha età, non ha luogo, ma è l'indiscusso protagonista della vicenda, personificazione della gestione patriarcale e dittatoriale di uno stato misterioso, che potrebbe rappresentare tutti gli stati del mondo.
Si è portati a pensare, me compreso, talvolta, che i potenti, i detentori del potere possano fare a meno di comuni sofferenze e universali immalinconimenti dell'animo. E invece no, anche qui, a volte si offrono immensi spazi a cavalcate imperiose del decadimento, della solitudine, del ricordo.
Il patriarca è immerso nel suo autunno della vita, quasi oramai sprofondato nell'inverno gelido che non finisce più ed a cui noi tutti arriveremo, ed egli oggi non ha nome, non ha età, non ha luogo, ma è l'indiscusso protagonista della vicenda, personificazione della gestione patriarcale e dittatoriale di uno stato misterioso, che potrebbe rappresentare tutti gli stati del mondo.
Cent'anni di solitudine (Gabriel Garcia Marquez)
Sono entrato a casa Buendìa, tanti anni fa, in punta dei piedi. Rimasi
quasi ubriaco al profumo delle prime righe, mi accesi subito di speranze,
sensibile come un' antenna satellitare ai sommovimenti universali dei generi
letterari e dei loro protagonisti.
E, confesso, a distanza di anni, quando ritorno a casa Buendìa, non posso altro che riscaldarmi al sapore di quelle prime emozioni, insaporendole e rimpolpandole con il succo ed il nettare delle parole memorabili e delle storie incancellabili di questa incredibile costruzione che Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel, autore di altri romanzi da me amati quali Cronaca di una morte annunciata e L'autunno del patriarca, ci ha lasciato, sapendo di non sapere eppure dando tutto se stesso e anche di più.
Marquez arrivò, qui, a passi lenti e magistrali, prima con piccole costruzioni deliziose come casali di campagna (i racconti Nessuno scrive al colonnello, I funerali della Mamà grande per esempio) e poi con piccoli quartieri residenziali urbanisticamente perfetti come "La Mala Hora", fino ad arrivare a questa città della narrativa, a questa capitale dell'immaginario collettivo.
E, confesso, a distanza di anni, quando ritorno a casa Buendìa, non posso altro che riscaldarmi al sapore di quelle prime emozioni, insaporendole e rimpolpandole con il succo ed il nettare delle parole memorabili e delle storie incancellabili di questa incredibile costruzione che Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel, autore di altri romanzi da me amati quali Cronaca di una morte annunciata e L'autunno del patriarca, ci ha lasciato, sapendo di non sapere eppure dando tutto se stesso e anche di più.
Marquez arrivò, qui, a passi lenti e magistrali, prima con piccole costruzioni deliziose come casali di campagna (i racconti Nessuno scrive al colonnello, I funerali della Mamà grande per esempio) e poi con piccoli quartieri residenziali urbanisticamente perfetti come "La Mala Hora", fino ad arrivare a questa città della narrativa, a questa capitale dell'immaginario collettivo.
10 novembre 2014
Non è un paese per vecchi (Cormac McCarthy)
C'è questa America di confine con il Messico. Dove passa tanta droga
certo, ma solo perché la richiesta dei consumatori è in grandioso e facoltoso
aumento. C'è questo profondo sud statunitense che da secoli ormai è in contrasto
archetipico con gli eccessi brillantati e sotto i riflettori dorati del
successo a portata di mano o di portafoglio della California e della West coast
in generale. O in netta antitesi con il progressismo industriale e tipicamente
capitalista dei "nordisti".
Parliamo di ciò
perché prima di entrare nello specifico, questo romanzo è essenzialmente una
narrazione profondamente legata alle sue radici territoriali.
Ed in ogni caso non
ho resistito.
E benché non sia propriamente amante del genere
di cui il libro fa parte, eccoci qua. Tenuto conto che non amo il sangue, visto
che anche a pasto la carne la divoro ben cotta. Ma l'arena invece mi affascina.
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