16 giugno 2015

Il mare delle verità (Andrea De Carlo)

Ci sono narrative surgelate. Che puoi scongelare al forno microonde dell'indifferenza e della apatia.

Succede. Slanci ed entusiasmi veri brividi estetici che ti hanno scosso le intime fibre dell’anima dedita al bello vengono letteralmente freddate. Perché poi ci si cade, inevitabilmente, nell’essere succube delle tue stesse aspettative. Ci sono pseudo innamoramenti, vaghi sentori di letture che sai ti disgusteranno. Però hanno un certo maliardo e sensuale fascino. I ricordi. Le passate speranze, leggendo pagine asciutte e dense, uno di quei miracoli che il romanzo sa fare.
Per cui.
Per quello che.
Leggere è anche immedesimarsi, attendere, sperare che una frase ti accenda quel fuoco che credevi si stesse spegnendo.
Il miracolo di accendere.



 Sì in fondo Andrea De Carlo a me non deve dire più niente.
Nella sua annuale e vastissima pluri-auto-clonata produzione, ha sempre fatto lo stesso errore.

Ed io a chiedermi.

Vediamo se Andrea riesce a diventare narratore. Se riesce a mettere la fantasia e la voglia di raccontare al servizio della sua scrittura ineccepibile. Vediamo se scavando o faticando trova un sostrato narrativo degno di.

Passione.

Grido.
Dolore.
Amore.
E sogno. Perchè questo chiediamo. Sogni, o sentimenti-ragionamenti- emozioni simili a. 
Sennò leggere un manuale botanico o le ricette della nonna sono lo stesso di affrontare Kafka. E non è lo stesso. L’arte ha la pretesa di essere eterna e catartica. Quando è arte vi riesce. O quando si sfiora ti lascia la tentazione che la prossima prova finalmente l’estro riuscirà a sfamare quella sete e fame in genere appetito di cui dicevo. E di cui dirò.

Ne "Il mare delle verità " la bugia a nome De Carlo cesella un altro enorme e postumo segnale di scostante e decrepito invecchiamento. Un'altra poco brillante perla da legare alle altre precedenti già opache prima di invecchiare.
Stantìi stilemi, vacui e poco lussureggianti, echeggiamenti di passati romanzi, l'ennesima reiterazione senza sosta di tipiche tipicità più volte raccontate, qui solo riammantati di una sana e invereconda dose di contemporaneità con evidenti accenni e sterili digressioni didascaliche come le targhette dei prezzi in un supermercato in disuso. Con tanto di beffardi e lascivi commenti sulla recente Italia ulivista.
De Carlo, tu quoque.
Ma non è tanto il giudizio politico che annaspa o non risulta storicamente e criticamente se non condivisibile se non altro consistente.
E' l'intero pattern narrativo, l'intera struttura che sembra davvero scivolare in un disgustoso lassativo allegramente commissionato ad un potente anestetico, senza nerbo, senza rancore, senza passione. Senza.
Questo è un libro senza.
Due fratelli, il solito ribelle prossimo alla vita dell'autore, benestante, con un fratello specchio e contraltare, fragile e confuso anti eroe romanzesco, soffrono della perdita del padre. Ed in un Roma surreale e vuota e senz'anima come lo stadio Olimpico nelle giornate di ferragosto, il protagonista ed i fratello politico affermato e marito fallito ma perbenista, trovano il modo di sconcludere qualsiasi anelito, di disciogliere nel nulla qualsiasi tensione narrativa o vagamente tale. 

L'io narrante avrà i suoi amori o libidini da evadere o lasciare evacuare come aria, come sempre in numerosi degli svariati romanzi precedenti, in forza del suo pseudo-nichilismo benestante, del suo non-interventismo se non altrimenti individualistico e individuale nella più più trita minestra dell’anarco- libertario e grazie ad espedienti romanzeschi da spot pubblicitario senza marchio d'autore.
Il solito velleitario scrittore, che campa di aria e si nutre di nullità perbeniste che assieme (e contro) il fratello, affronterà terribile ricerca della verità, in un giallo scolorito come una foglia autunnale, con denunce prossime al parossismo qualunquista, con violazioni dell'identità della storia, con violente e puerili ribellioni molto fumo e niente arrosto senza vigore, sadiche solo contro chi le ha scritte.
E l’insopprimibile sensazione che la protagonista femminile sia solamente una ancor più pallida raffigurazione della scialba ed impalpabile Malaidina che dissennatamente recitava  Uccelli da gabbia e da voliera (1982).
E' tipico esempio di serializzazione e tipicizzazione che secondo i più consolidati teoremi critici in materia sono le fondamenta della cosiddetta paraletterattura. Non serve particolare acume critico per identificare che questa narrativa si veste e si ammanta di queste particolarità



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