Ci sono narrative surgelate. Che puoi
scongelare al forno microonde dell'indifferenza e della apatia.
Succede. Slanci ed entusiasmi veri brividi estetici che ti hanno scosso le
intime fibre dell’anima dedita al bello vengono letteralmente freddate. Perché poi
ci si cade, inevitabilmente, nell’essere succube delle tue stesse aspettative.
Ci sono pseudo innamoramenti, vaghi sentori di letture che sai ti
disgusteranno. Però hanno un certo maliardo e sensuale fascino. I ricordi. Le
passate speranze, leggendo pagine asciutte e dense, uno di quei miracoli che il
romanzo sa fare.
Per cui.
Per quello che.
Leggere è anche immedesimarsi, attendere,
sperare che una frase ti accenda quel fuoco che credevi si stesse spegnendo.
Il miracolo di accendere.
Sì in fondo Andrea De Carlo a
me non deve dire più niente.
Nella sua annuale e vastissima
pluri-auto-clonata produzione, ha sempre fatto lo stesso errore.
Ed io a chiedermi.
Vediamo se Andrea riesce a diventare
narratore. Se riesce a mettere la fantasia e la voglia di raccontare al
servizio della sua scrittura ineccepibile. Vediamo se scavando o faticando
trova un sostrato narrativo degno di.
Passione.
Grido.
Dolore.
Amore.
E sogno. Perchè questo chiediamo. Sogni, o sentimenti-ragionamenti- emozioni
simili a.
Sennò leggere un manuale botanico o le ricette della nonna sono lo stesso di
affrontare Kafka. E non è lo stesso. L’arte ha la pretesa
di essere eterna e catartica. Quando è arte vi riesce. O quando si sfiora ti
lascia la tentazione che la prossima prova finalmente l’estro riuscirà a
sfamare quella sete e fame in genere appetito di cui dicevo. E di cui dirò.
Ne "Il mare delle verità " la bugia a nome De Carlo cesella un altro
enorme e postumo segnale di scostante e decrepito invecchiamento. Un'altra poco
brillante perla da legare alle altre precedenti già opache prima di
invecchiare.
Stantìi stilemi, vacui e poco
lussureggianti, echeggiamenti di passati romanzi, l'ennesima reiterazione senza
sosta di tipiche tipicità più volte raccontate, qui solo riammantati di una
sana e invereconda dose di contemporaneità con evidenti accenni e sterili
digressioni didascaliche come le targhette dei prezzi in un supermercato in
disuso. Con tanto di beffardi e lascivi commenti sulla recente Italia ulivista.
De Carlo, tu quoque.
Ma non è tanto il giudizio politico che
annaspa o non risulta storicamente e criticamente se non condivisibile se non
altro consistente.
E' l'intero pattern narrativo,
l'intera struttura che sembra davvero scivolare in un disgustoso lassativo
allegramente commissionato ad un potente anestetico, senza nerbo, senza
rancore, senza passione. Senza.
Questo è un libro senza.
Due fratelli, il solito ribelle prossimo
alla vita dell'autore, benestante, con un fratello specchio e contraltare,
fragile e confuso anti eroe romanzesco, soffrono della perdita del padre. Ed in
un Roma surreale e vuota e senz'anima come lo stadio Olimpico nelle giornate di
ferragosto, il protagonista ed i fratello politico affermato e marito fallito
ma perbenista, trovano il modo di sconcludere qualsiasi anelito, di
disciogliere nel nulla qualsiasi tensione narrativa o vagamente tale.
L'io narrante avrà i suoi amori o libidini da evadere o lasciare evacuare come
aria, come sempre in numerosi degli svariati romanzi precedenti, in
forza del suo pseudo-nichilismo benestante, del suo non-interventismo se
non altrimenti individualistico e individuale nella più più trita minestra
dell’anarco- libertario e grazie ad espedienti romanzeschi da spot
pubblicitario senza marchio d'autore.
Il solito velleitario scrittore, che campa
di aria e si nutre di nullità perbeniste che assieme (e contro) il fratello,
affronterà terribile ricerca della verità, in un giallo scolorito come una
foglia autunnale, con denunce prossime al parossismo qualunquista, con violazioni
dell'identità della storia, con violente e puerili ribellioni molto fumo e
niente arrosto senza vigore, sadiche solo contro chi le ha scritte.
E l’insopprimibile sensazione che la
protagonista femminile sia solamente una ancor più pallida raffigurazione della
scialba ed impalpabile Malaidina che dissennatamente recitava
Uccelli
da gabbia e da voliera (1982).
E' tipico esempio di serializzazione e
tipicizzazione che secondo i più consolidati teoremi critici in materia
sono le fondamenta della cosiddetta paraletterattura. Non serve particolare
acume critico per identificare che questa narrativa si veste e si ammanta di
queste particolarità
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