09 giugno 2015

Il comunista (Guido Morselli)


Già dal titolo evocativo e all’apparenza severo, altisonante per certi versi,  “Il comunista“, di Guido Morselli fu pubblicato nel 1976, benché fosse stato scritto ben venti anni prima, per la forse nota parabola esistenziale ed editoriale dello scrittore, morto suicida nel 1973 e meritorio di fortuna letteraria solo all’indomani del tragico gesto. Abbiamo di fronte un’opera di cui forse si è parlato poco, ma che rappresenta un desueto ma ben congegnato romanzo, mirato, avente a priori un obiettivo annunciato sin dal titolo, ma indubbiamente recante in sé la natura e la forza di una preziosa testimonianza di natura letteraria, forte ma non altero, con una lungimiranza e una pacata ma non per questo meno incisiva onestà intellettuale. Morselli tratteggia infatti un quadro completo, distaccato ma non asettico e per certi versi impietoso di un partito simile ad una enorme sfinge, dai rituali quasi ecclesiastici e dalla sostanziale freddezza, senza aver mai avuto a che fare con lo stesso e senza che esistessero plausibili motivi di eventuale accidia o rimostranza. E’ dunque meramente la scrittura e la tesi di fattura letteraria di un autore sui generis magari, ma indubbiamente dotato di una lucida e accurata capacità di analisi del suo tempo, con uno stile comunque levigato, essenziale, abilmente manovrato. 



Credo infatti in questa ottica vada letto l’atteggiamento di Morselli verso un argomento delicato e nello stesso tempo impegnativo quale il manifestarsi di una crisi di coscienza in un militante comunista a suo modo atipico quale il Ferrarini, autodidatta ma non istruito, fervente ma non passivo nella prassi politica, alla ricerca di un’identità “collettiva” ma nello stesso tempo individuo pensante.
Reggiano, immigrato di ritorno dagli Usa, cooperativista e militante, baciato dalla fortuna elettorale ed eletto deputato a Roma, Ferrarini è un uomo che studia e riflette, dubita e si lascia vincere dal dubbio, c’è del marcio in Parlamento, c’è l’obsoleto o il compromissorio di vago sapore di tradimento nel partito che rappresenta.
Indiscusso protagonista principale della vicenda narrata, Ferrarini riesce a simbolizzare nel suo dissidio interiore problematiche di vasta portata ed esulanti dalla mera vicenda personale, con una testarda caparbietà non sarcastica o propagandistica, emblema di una certa fase storica di determinati ambienti politici, segnala un approccio alla realtà ed alla vita contemporanea invero di rara e scaltra misura, che però condanna inevitabilmente alla solitudine e all’isolamento, poiché la fede e la fiducia nei propri istinti e nelle proprie idee, senza cercare una più o meno pacifica convivenza con il mondo circostante, da sempre sono un paradigma di un futuro esilio e di un progressivo abbandono e ostilità anche se benevola da parte del mondo esterno e/o circostante.
Morselli fu, dalle notizie in nostro possesso, uomo a suo modo isolato, culturalmente onnivoro e fervido lettore di classici della narrativa e della filosofia, con atteggiamento distaccato verso le mondanità e le eventuali prese di posizione teoriche dell’intellettualismo coevo, mettendo in atto un approccio al narrato ed alla Letteratura intesa come esplorazione del reale e scomposizione ed approfondimento di diversi punti di vista, metodo conoscitivo oltre che oggetto di mera fruizione estetica, illuminismo di fondo ma pienamente calato nel contingente contemporaneo, idealismo e idealità maturate e convinte, ma mai issate come bandiere, come simbolo di arroccamento intellettuale intransigente, inviolabile, puramente a titolo di contrapposizione, perlomeno in questo romanzo, dove l’aspetto problematizzante prevale in maniera netta.
Tutto questo però con un’indagine personalissima e per così dire autodidatta, esiliata, non superba o rivoluzionaria, ma semplicemente isolata, lontana dalle solitudini teoriche e pratiche ad esempio di quelle poste in essere dal Calvino più maturo, pur sempre uomo profondamente a contatto con “l’ambiente” letterario pur nelle sue scelte coraggiose, futuristiche o velleitarie che dir si voglia.
Dunque, in ogni caso, un approccio al mondo dialettico, con scomposizione e ricomposizioni effettuate alla luce di un procedere ragionato e ragionevole, mai con digressioni devastanti ed imperiose.
Un illuminismo insomma mai acerbo ma sollecitamente rinvigorito da letture ed approfondimenti, la elusione di tentazioni estremiste ed estremizzanti, militanti ovvero non mediate (numerose in ogni caso le citazioni letterali di classici del marxismo, come da nota dell’autore al romanzo).
Questo si desume (o può desumersi) da una lettura attuale del romanzo, che, pur essendo scritto da un irregolare appartato ed acculturato scrittore, denota inoltra in se alcune intuizioni di carattere moderno e incredibilmente preveggenti o in ogni caso quasi profetiche.
C’è un senso di sconfitta e di invincibile disillusione ed impotenza, dalle tinte mai cupe ma vivide, e nello stesso tempo un continuo e permanente orgoglio, di rimettersi in discussione e discutere il mondo artefatto ma tutt’altro che granitico che circonda. Nessuna claustrofobia ma nemmeno un procedere eccessivamente meccanico, anche se però trattarsi di uno di quei romanzi a tesi, una serie di ragionamenti e considerazioni sono il vero humus per la narrazione, di per sé mero espediente esemplificativo per poter meglio esporre concetti, impressioni, sentimenti.
Mi piace estrapolare almeno tre elementi portanti di indubbia e motivata modernità, che si affacciano con evidenza mai grossolana o velleitaria, quali ad esempio il rapporto fra donna e società, politica e non politica nel contempo, dove la relazione illegale fra Ferrarini e Nuccia arriva addirittura a minare la posizione dell’uomo nel seno del partito rappresentato, una tematica già sviscerata negli anni ’50 e che ancora oggi risulta pienamente e inconsolabilmente simbolo di una società non ancora sprovincializzata sotto molti punti di vista. Poi la burocrazia di partito di contrasto ed in profonda antitesi netta allo spontaneismo della base all’interno del Partito comunista italiano, un dilemma trascinatosi credo negli anni ed alla fine mai risolto, se si pensa ad alcuni fatti di cronaca ancora oggi attuali. Questo in una persistente e pervicace ottica di insopprimibile arrivismo, insito in tutti gli uomini ed ancor più in coloro i quali hanno posizioni di prestigio nell’ambito del vivere civile. Ancor di più di tutto quanto esposto degne di menzione, e francamente avvincenti seppur ingessate nella logorrea teorica ed ammantate da citazionismi sicuramente ostici al lettore comune, sono le riflessioni sul lavoro come sofferenza comunque e dovunque, anche ove, e quando, il socialismo dovesse trionfare. Tali riflessioni di Ferrarini peraltro, enunciate da lui in un saggio non adeguatamente vagliato dalle kafkiane strutture di partito, saranno all’origine di un’insanabile disaffezione che il finale aperto lascia intendere di difficile ricomposizione.
Un romanzo dunque atipico, considerati gli anni della sua stesura, che mette in luce una personalità che persegue lucidamente una propria originalità e interpretazione dl mondo, mai caustico ma nemmeno conciliante ma non per questo solipsistico, con alcune notazioni, direi, di sorprendente validità atemporale, valide ad essere lette e ripensate ancor oggi.



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