Il professore corre, si stanca, piange, si infuria.
All’improvviso, sulle fondamenta nella sua cementificata attività lavorativa di
sommo vate universitario, appaiono crepe destabilizzanti. E’ lui l’inesorabile
ed irresoluto protagonista, anche quando non è presente o anche quando tace.
Questo è un romanzo dove la sostanza e le impressioni sono quelle non dette e
non riportate, dove il silenzio e l’assenza sono molto più significative delle
presenze di cera che si sciolgono al calore del fuoco della vita oppure delle
parole che vengon dette solo per opportunità, casualità, abitudine.
Ma dove corri professore? Sembri quasi un’icona del
malessere della mezza età e a me ricordi i tanti troppi che fortunati o
caparbi, son convinti che il mondo giri solo attorno a se stessi, uomini o
donne che siano,bambini, di mezza età o anziani, salvo accorgersi di essere dei
comuni satelliti come tutti, orbitanti attorno alla speranza di essere felici.
Lo sai bene che oramai il più è fatto o se preferiamo disfatto. Non
arrabbiarti, “prof.”, sapevi bene che questo lucido equilibrio, questa
apparente calma, questa docile e serena cattedratica vita e vitalità che
consente solo di pontificare e mai, assolutamente mai mettersi in dubbio era di
per sé un miracolo. Ed i miracoli, ammesso che si possano verificare, li fanno
solo i santi e tu di divino non hai nemmeno l’ombra, come me, come tutti, come
noi comuni mortali che non passiamo la vita sui libri di classici della storia
della grammatica e della linguistica dibattendo con furia ed orgasmatiche prese
di posizione la vile importanza di un accento o la sacra sacralità
dell’etimologia di una parola, anche se in disuso magari.
In questo romanzo tutto si gioca su un clamoroso e
inaspettato attacco, ad una lesa maestà che si compie su una importantissima ed
impolverata rivista universitaria letta da pochi, da quasi nessuno, se non
valga promozioni o prebende di carriera. L’apparentemente granitico professore
di filologia, scienza esatta della sttoria della singola parola, viene
pesantemente attaccato sulla sua interpretazione della parola ipocrita, anche
perché “l’ipocrita è una cosa e ne sembra un’altra” sentenzia l’irriverente
rivoluzionario, che sottende anche pesanti ilazioni alla rigida ma scomposta
vita dell’illustre scienziato filologo e da lì una serie di confronti e scontri
con gli amici, con la propria moglie e le mogli degli altri, una crudele ma
appassionate sequela di perle della sconfitta da mettere in fila come in una
collana e mettersela al collo e dire ecco, questo sono io.
“Solo la menzogna è perfetta” dice Salutati o “la vecchiaia è una gran brutta
sorpresa” dice Daverio, personaggi che appaiono o scompaiono, in un tetro ed
angusto ambientamento di colore kafkiano. E il professore? In questa eterna
partita a scacchi senza vinti o vincitori, senza scacchi bianchi o neri,
confessa di amare solo di “rifare le partite degli altri”. Lo dice con
orgoglio, ma sarebbe da vergognarsi.
Ma non arrabbiarti professore. Non sempre arriva il momento della verità, non
per forza c’è il momento della resa dei conti, non è assolutamente certo che un
giorno, una sera, una notte quel labile ed incerto velo che noi curiamo,
infiliamo, strappiamo e ricuciamo e che chiamiamo verità sia in realtà un
tessuto come quelli ormai liofilizzati di certe produzioni contraffatte. Niente
resiste all’usura del tempo, puoi essere un perfetto sarto ma certi vestiti non
li puoi indossare più ogni bivio ed incrocio che ci si propone nel cammin di
nostra vita.
"Il giocatore invisibile" è una grigia ma accecante partita dove
grandi studiosi che in nome del loro assoluto e dittatoriale rigore scientifico
perdono costantemente il contatto con la realtà, con qualsiasi tipo di realtà,
fino a sprofondare e scivolare vittime più che degli attacchi o scortesie degli
altri, della loro insuperabile inettitudine.
Adatto ad adulti anche senza importanza, che non si prendono
sul serio ma che amano il confronto piuttosto che l’egocentrismo, uscito nel
1978 ma ancora attualissimo per struttura, scrittura e contenuti, questa opera
di Giuseppe Pontiggia ( 1934-2003) è un testo dalle sfumature quasi noir, dai
contenuti esistenzialisti, dalla struttura assolutamente leggibile e godibile. Un altra piccola perla da parte dell'autore di Vita di uomini non illustri e La grande sera. Impietoso, tra l’altro, il ritratto del cosiddetto mondo professorale e
cattedratico italiano, chiuso in se stesso, talvolta claustrofobico, pieno di
paure, paranoie, falsità, carrierismi, adulazioni, rapporti sostanzialmente non
sinceri e dall’aspetto cinereo, funebre.
Un Pontiggia più lineare del solito, nella scrittura,qui dedito ad un mostrare
flaubertiano più che allo scandaglio senza illuminismi di sorta degli inganni
ed autoinganni che il molteplice e dimidiato essere umano perpetra ai danni di
se stesso soprattutto ma anche della sua comunità, spesso non per sadica
cosciente volontà di male o di nulla, ma per mera e pura incapacità di,
insanità a, inabilità per.
Gli uomini sono né incompleti né tantomeno imperfetti. Gli uomini sono inganno
ed ingannati, anche e soprattutto grazie all'espediente del linguaggio, forma
di comunicazione che dovrebbe disgelare o aiutare la comprensione di se e del
mondo degli altri e che invece, alla fine, più che preciso si rivela
dissimulatore, più che avere un senso ne dispiega vari ed eventuali, proprio
come un trucco, un inganno.
Nessun commento:
Posta un commento