Saga di
sentimenti e istinti, di sfide all'assurdo e all'impossibile fatte con la
lucida coscienza di sfidare, anche se non sempre sembra un gioco.
E si avverte una forte e vivida forza di avere, dettata dal richiamo
inesorabile del legame familiare, che riesce a scollare l'anima dall'apatia: la
voglia di giocare. Ancora. E di più.
Anche se
non sembra possibile. Anche.
In barba alle convinzioni ed alle convenzioni.
Eccolo, un libro dimenticato, come le feste nazionali, come il precariato
intellettuale, come.
Quando.
Adesso.
Storia semplice: un padre appena sfuggito agli strali dei finanzieri per
celebrare il suo presunto moralismo che non trova scampo ai suoi donchisciotteschi investimenti
da imprenditore incapace, cerca (e trova ma non trova) il proprio figlio in una
Roma sonnolenta e calda, anzi afosa, in un estate fine anni ottanta e gli
chiede, anche se ciò costa i rimbrotti velleitari e mai cinici, di fargli un favore.
Recuperare il
denaro di un conto segreto tenuto, ovviamente, in Svizzera. E la storia sarà il
loro viaggio fino alla meta, con tutti i perché ed i ma del caso, visto la
disastrata situazione familiare, con una madre di natura ondivaga e
squinternata, ormai sparita come una bolla di sapone nell'aria dell'ineffabile, lasciando i due,
il padre ed il figlio, alla ricerca di un equilibrio interiore ma anche nel
loro contrastato rapporto.
Rapporto costruito su un'Impervia e dura voglia di sopraffare le decisioni dell'altro, una incommensurabile sete di stupire, una puerile ma non sorda e cieca voglia di sapere, di non sapere cosa fare. E allora ecco binari che non portano mai a stazioni di decisioni, una certa impermeabilità alle umidità farraginose della sicurezza eppur sempre incerta, il sogno di una tranquilla dormita riposante senza spasmi ed aneliti, un certo deserto emotivo condito però ad un onnipresente stupefatto e visionario sguardo infantile sulle cose e sulle persone.
E dunque faida di principi morali che si scazzottano violentemente con le inesattezze ed improbabilità che nutrono ed altresì affamano la vita, scintillio di raggi di sole e lune placide su giorni disordinati e notti insonni volti a recuperare un equilibrio seppur esso è ad un passo, basterebbe un certo senso di responsabilità
Rapporto costruito su un'Impervia e dura voglia di sopraffare le decisioni dell'altro, una incommensurabile sete di stupire, una puerile ma non sorda e cieca voglia di sapere, di non sapere cosa fare. E allora ecco binari che non portano mai a stazioni di decisioni, una certa impermeabilità alle umidità farraginose della sicurezza eppur sempre incerta, il sogno di una tranquilla dormita riposante senza spasmi ed aneliti, un certo deserto emotivo condito però ad un onnipresente stupefatto e visionario sguardo infantile sulle cose e sulle persone.
E dunque faida di principi morali che si scazzottano violentemente con le inesattezze ed improbabilità che nutrono ed altresì affamano la vita, scintillio di raggi di sole e lune placide su giorni disordinati e notti insonni volti a recuperare un equilibrio seppur esso è ad un passo, basterebbe un certo senso di responsabilità
"Per dove parte questo treno allegro" (1988), esordio di Sandro Veronesi, ultimamente affacciatosi alla ribalta inebriante e molto veloce del successo letterario (Premio Strega con Caos calmo nel 2006), è un romanzo intimo e autobiografico, dove il nodo è un bislacco ma veritiero rapporto padre-figlio, uno specchio oltremodo speculare dell'altro, dove c'è un certo autocompiacimento quasi masochistico e molto auto-referenziale a scoprirsi nella altra parte nel momento esatto in cui si cerca di dividersi e di frapporre barriere, indifferenze, insofferenze.
Tutto si commistiona e si mette in dubbio, sulle ali di un sarcasmo venato di umorismo mai frivolo e tantomeno friabile.
Chi è il padre e chi il figlio, chi la saggezza e chi la ragione, chi dice la verità e chi ricorre come pratica abitudinaria all'arte della bugia senza però essere artista, un groviglio non inestricabile che però ribalta continuamente le posizioni e le certezze acquisite alla pagina precedente e che alla fine diverrà complicato e complicante perché sia per osmosi o sia per i misteri delle cellule in comune date dal legame di sangue, i ruoli si interscambiano e alla lucida impassibilità del padre e una certa comica e velleitaria impassabilità al dolore del figlio si cederanno il posto reciprocamente focosamente all' implacabile amore-odio del figlio tradito ed affascinato da quel Mitchum che gli è genitore.
Una frazionaria e frazionante composizione che innerva il composto e misurato romanzo, che certo non si evidenzia per brillante acume linguistico, per particolare innovazione strutturale o per maestoso contesto sociologico o geografico in quando tutto questo è mero sfondo anche spesso opaco per lasciare il primo piano ad azioni folli e disperate ma lucidamente cercate e consapevoli dei due, nella loro costante compresenza a volte assente e con la luce pallida ma ancor vivida della madre moglie traditrice e incerta che un bel giorno li piantò senza lasciare di sé tracce e profumi se non che il peso della sua irrimediabile irrequietezza e ormai assoluta distanza.
Un viaggio per l'Italia(etta) fine anni Ottanta brevemente tratteggiata come un norrmale clichè del caso, quasi schifata come tutto il resto del mondo seppur a volte ironizzato e parodiato, ma ogni aspetto spesso sconfina nell'abbastanza orrorifico, e tutto plana, sprofonda, nell'intimo e nel privato, quasi che lo scrittore sfuggisse alla sua mission di parlare di un mondo e più o meno lucidamente ripiegasse alla ricerca di un qualunque nesso, un vincolo, un laccio o magari una coattiva catena che incateni i due personaggi e la loro aleatoria ricerca ad una salda terra di ragionevolezza, concretezza, praticità.
Eccolo dunque questo esordio di un allora sconosciuto Veronesi, pubblicato da Theoria (ora su Bompiani), storica casa romana indipendente volta alla scoperta di giovani talenti, ora come detto un narratore in voga e sul piedistallo dei premi, baracconi e bancarelle letterarie, una prova certo coraggiosa se autobiografica, con qualche barlume di classe e di una certo cinismo espressivo ed esistenzialista , esempio lampante di come venti anni fa spesso, troppo spesso, lo scrittore italiano rifiutò qualsiasi impegno e qualsiasi compartecipazione agli eventi rutilanti che s'aggiravano d'intorno e necessitasse perlopiù la(ri)scoperta di una dimensione interiore e privata della scrittura, a recupero delle memorie proprie più che collettive, per evitare la collisione con un mondo ormai teso con passo accelerato ad immergersi nella globalizzazione del mercato e nella internettizzazione dei rapporti delle scritture e delle comunicazioni e che dunque ormai sembrava distante e indiscutibilmente refrattario a prese di posizione populiste o di stampo tardo-eroistico o pseudo decadente.
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