mercoledì 12 novembre 2014

Cent'anni di solitudine (Gabriel Garcia Marquez)

Sono entrato a casa Buendìa, tanti anni fa, in punta dei piedi. Rimasi quasi ubriaco al profumo delle prime righe, mi accesi subito di speranze, sensibile come un' antenna satellitare ai sommovimenti universali dei generi letterari e dei loro protagonisti. 
E, confesso, a distanza di anni, quando ritorno a casa Buendìa, non posso altro che riscaldarmi al sapore di quelle prime emozioni, insaporendole e rimpolpandole con il succo ed il nettare delle parole memorabili e delle storie incancellabili di questa incredibile costruzione che Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel, autore di altri romanzi da me amati quali Cronaca di una morte annunciata e L'autunno del patriarca, ci ha lasciato, sapendo di non sapere eppure dando tutto se stesso e anche di più. 
Marquez arrivò, qui, a passi lenti e magistrali, prima con piccole costruzioni deliziose come casali di campagna (i racconti Nessuno scrive al colonnello, I funerali della Mamà grande per esempio) e poi con piccoli quartieri residenziali urbanisticamente perfetti come "La Mala Hora", fino ad arrivare a questa città della narrativa, a questa capitale dell'immaginario collettivo. 


Questa é la Storia della famiglia Buendia e della città immaginaria di Macondo, microcosmo galattico che respira tutte le stelle, meteoriti e pianeti vaganti dell'universo umano, in salsa squisitamente sudamericana. 
Cento anni che sono molto più di un semplice secolo perché la solitudine ( e la sua perfida sorella traditrice, la compagnia) dilatano o restringono a loro piacimento qualsiasi misurazione razionale del tempo e dello spazio. 
Schiacciamo e dilatiamo, allora, tra amori vertiginosi, odi profondi come il buco dell'ozono, passioni avvolgenti come i tentacoli di una novella medusa spietata, tra sconfitte e vittorie avvincenti. Nel placido ma conturbante sottofondo di fantasia insomma, tutto è raccontato della vita che ci avvince e vogliamo avvincerla, stringerla, consumarla, farla nostra, possedendola, esatto 
Questo romanzo é come un censimento affatto troppo lezioso o didascalico delle popolazioni di sentimenti e pensieri che attraversano le geografie sterminate dell'animo umano. 
Come? 
Epopea della fantasia, ciclicità dell'esistenza, saga della storia sudamericana issata come una bandiera scolorita ma che ha la dignità dell'esistere a discapito di tutti e contro tutto. 




Testo definito ora lento, ora fantastico, ora storico, ora esistenzialista che eruppe come una scheggia immortale di "realismo magico" nel ormai lontano 1967, accecando una letteratura europea ormai agonizzante, intessuto di riti pagani e spiritualità dal volto immondo ma dal cuore malinconico e affetto da tenerezza che affollano, senza spingersi o affondare troppo nelle vicende narrate, la vita di una famiglia sterminata come una comunità ed eterna come la Natura, segnata dal destino e dall' oppressione, dalla sconfitta e dalla voglia di vincere, dalla maledizione e dalla superstizione, ma con quella impareggiabile voglia, che solo l'essere umano può avere, di avere vita e di vivere questa voglia. 
E a partire dai capostipiti abbiamo figli del disonore e dell'ardore, padri di grandi battaglie e lussuose sconfitte, donne piegate e spezzate che rinascono senza interruzione di sorta in altre donne, simbiosi ed osmosi, in una ciclicità non lineare ma circolare, come vedessimo un sasso lanciato nello stagno che disegna cerchi concentrici fino all'ultimo giro. 
E c'è il profilo di un destino a volte lucido e a volte bastardo, il senso dell'inesorabile continuo scorrere del tempo, c'è la parabola dell'amore, degli amori possibili o impossibili, voluti o subiti, solubili o volubili, ci sono le tradizioni e le aspirazioni, l'ineluttabile e l'imponderabile, c'è la vita che più vita non si può. 
E, personalmente, non riuscirò a scordare mai i colonnelli Buendia, Ursule, Aureliani e Arcadi, Pilar e Rebecca che si affacciano a cercare aria in questa atmosfera umida, irrespirabile, violenta e primitiva, anche quando arriva la colonizzazione nordamericana fatta di ferrovie, piantagioni di banane, potenza economica e sterilità avida dettata dall'oppressione. 
Nella ciclicità delle vite che appaiono e scompaiono in questa famiglia senza tempo, in questa casa senza nome ma con un cognome che rifiuta la sconfitta, noi ritroviamo un pezzetto di anima, una particella di DNA emotivo che ci appartiene, una congiunzione che scavalca l'oceano atlantico e come un pensiero migratore, empaticamente, che va a planare da me, europeo di razza bianca.  
Un romanzo indimenticabile che forse vale molto di più del suo immenso valore, una profonda rivisitazione del testo classico ottocentesco da Balzac al Thomas Mann dei Buddenbrook dove stavolta non c'è determinismo, ma solo determinazione, non c'è naturalismo ma solo natura , dove non c'è la asfittica presunzione europea alla razionalizzazione del tutto ma solo la cieca, imperturbata, magica favola del vivere e dell'esistenza, quando il destino vuol solo crocifiggere i tuoi sacrosanti sogni di esistere.

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